Una Haggadah per gli ostaggi

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Ogni anno durante il Seder di Pesach, la festa che celebra la liberazione degli ebrei dalla schiavitù in Egitto, risuona la domanda: «Perché questa notte è diversa da tutte le altre?». Per decine di famiglie quest’anno la differenza sarà dolorosa ed evidente: l’assenza a tavola di uno dei loro figli, della madre, del padre, di un nonno. Assenti perché da quasi sette mesi ostaggio dei terroristi di Hamas. Il loro destino è ancora sconosciuto, di alcuni si sa che sono morti, di altri non ci sono notizie. A tutti loro è rivolta l’iniziativa promossa dal Comitato per la liberazione degli ostaggi: una Haggadah (il racconto di Pesach) dedicata ai rapiti e realizzata nel Kibbutz di Be’eri, tra i più colpiti dalle stragi del 7 ottobre.«Mentre 133 dei nostri fratelli e sorelle non sono ancora liberi, ci riuniremo intorno alla tavola delle feste con una Haggadah speciale dedicata a loro», sottolinea il Comitato nel presentare l’iniziativa. A questa pubblicazione hanno collaborato tra gli altri rav Israel Lau, già rabbino capo ashkenazita d’Israele; Miriam Peretz, premio Israele per il suo contributo alla società; Haim Yellin, già parlamentare del partito Yesh Atid e tra i sopravvissuti del kibbutz Be’eri. E ancora Jonathan Polin e Rachel Goldberg, genitori di Hersh, 23enne rapito il 7 ottobre da Hamas dal festival di Re’im.

«Quest’anno, più che mai nella nostra vita, quando mangiamo il pane dell’afflizione, assaggiamo le erbe amare o immaginiamo come ci si sente a essere schiavi, ogni atto assumerà un’intensità più profonda di quanto abbiamo mai sperimentato», scrivono i genitori di Hersch nell’introduzione alla Haggadah. «Quest’anno, queste esperienze sono reali per troppi nostri fratelli e sorelle. Il Seder è progettato per suscitare e incoraggiare domande». Alle quattro domande di cui si legge nella Haggadah, quest’anno per queste famiglie se ne è aggiunge una quinta: «Perché i nostri cari non sono seduti qui con noi?».
Mantenere viva la speranza, scrivono Jonathan e Rachel, «è obbligatorio. Questo significa far parte della nazione ebraica. Siamo un popolo che non si arrende mai. Andremo avanti finché non saremo liberi, tutti, nel corpo e nell’anima».
La sera di Pesach è un momento che unisce il popolo ebraico, sottolinea nel suo intervento rav Lau. «Quest’anno, forse più di ogni altro, desideriamo sentire questa unità». Per l’ex rabbino capo d’Israele, durante il Seder «non si ricorda solo il nostro esodo dalla Terra d’Egitto, o come in ogni generazione ci sia qualcuno che cerca di distruggerci come Popolo». Ma è un momento per ricordare il significato della libertà.
«Cosa racconteremo quest’anno ai nostri figli?», si chiede Miriam Peretz. Parleremo «della nostra straordinaria forza e del nostro spirito nell’affrontare la più grande calamità mai abbattutasi sul nostro Stato dalla sua nascita». Racconteremo, prosegue Peretz, che in passato ha perso in guerra due dei suoi figli, «dei nostri valori e delle nostre convinzioni, della differenza tra la giustizia e il male. Della nostra convinzione di non odiare gli egiziani. Di trovare l’amore e la pace».

 

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