Una Haggadah per gli ostaggi
«Quest’anno, più che mai nella nostra vita, quando mangiamo il pane dell’afflizione, assaggiamo le erbe amare o immaginiamo come ci si sente a essere schiavi, ogni atto assumerà un’intensità più profonda di quanto abbiamo mai sperimentato», scrivono i genitori di Hersch nell’introduzione alla Haggadah. «Quest’anno, queste esperienze sono reali per troppi nostri fratelli e sorelle. Il Seder è progettato per suscitare e incoraggiare domande». Alle quattro domande di cui si legge nella Haggadah, quest’anno per queste famiglie se ne è aggiunge una quinta: «Perché i nostri cari non sono seduti qui con noi?».
Mantenere viva la speranza, scrivono Jonathan e Rachel, «è obbligatorio. Questo significa far parte della nazione ebraica. Siamo un popolo che non si arrende mai. Andremo avanti finché non saremo liberi, tutti, nel corpo e nell’anima».
La sera di Pesach è un momento che unisce il popolo ebraico, sottolinea nel suo intervento rav Lau. «Quest’anno, forse più di ogni altro, desideriamo sentire questa unità». Per l’ex rabbino capo d’Israele, durante il Seder «non si ricorda solo il nostro esodo dalla Terra d’Egitto, o come in ogni generazione ci sia qualcuno che cerca di distruggerci come Popolo». Ma è un momento per ricordare il significato della libertà.
«Cosa racconteremo quest’anno ai nostri figli?», si chiede Miriam Peretz. Parleremo «della nostra straordinaria forza e del nostro spirito nell’affrontare la più grande calamità mai abbattutasi sul nostro Stato dalla sua nascita». Racconteremo, prosegue Peretz, che in passato ha perso in guerra due dei suoi figli, «dei nostri valori e delle nostre convinzioni, della differenza tra la giustizia e il male. Della nostra convinzione di non odiare gli egiziani. Di trovare l’amore e la pace».