Parashat Vayishlach
Trasformare il dolore in forza – Parashat Vayishlach
di Rav Shmuel Rabinowitz, Rabbino del Kotel e luoghi sacri in Israele tradotto da David Malamut
Nella parasha di Toldot, abbiamo letto della nascita del nostro patriarca Giacobbe da Rebecca e Isacco e delle benedizioni che ricevette da suo padre originariamente destinate a suo fratello Esaù. Nella parasha successiva, la parasha di Vayetze, abbiamo seguito Giacobbe mentre lasciava la casa dei suoi genitori per arrivare ad Haran, dove prende le sue due mogli, Rachele e Lea, affrontando l’inganno di suo suocero, Labano. Alla fine, Giacobbe non ha altra scelta che fuggire con la sua famiglia e i suoi averi da Haran nella terra di Canaan – la terra di Israele ai nostri tempi – con l’intenzione di tornare dai suoi anziani genitori.
Tuttavia, sul suo cammino, un’altra sfida lo attende, e non sarà l’ultima della serie di sfide che accompagneranno la sua vita. Si prepara a incontrare il suo fratello gemello, Esaù, ricordando le benedizioni che Giacobbe ricevette al posto suo. Alla fine, l’incontro, accompagnato da grande apprensione, si conclude pacificamente. Esaù saluta Giacobbe e si dirige verso Edom, la regione a est del fiume Giordano, mentre Giacobbe si dirige a ovest verso la terra di Canàan. Lì, a Shechem, dopo aver acquistato un appezzamento di terra, un lotto di terreno per intenderci, è alle prese con il rapimento e lo stupro di sua figlia Dinah da parte del figlio del sovrano locale – un evento che si conclude con il coraggioso salvataggio di Dinah, con il costo della vita degli uomini di Shechem da parte di Simeone e Levi, figli di Giacobbe – un evento su cui Giacobbe può ritenersi un po’ contrariato e con cui fatica a riconciliarsi.
Come se non bastasse, nel viaggio da Shechem a Hebron, la città di residenza dei suoi genitori, lo colpisce una tragedia: la sua amata moglie Rachele entra in travaglio per dare alla luce il loro secondo figlio, e durante il parto lei muore. Il bambino sopravvive, ma Rachele, la sua amata moglie e partner di una vita, non accompagnerà più Giacobbe. La seppellisce sul ciglio della strada, vicino a Betlemme, un luogo che ancora oggi funge da punto focale per le preghiere per gli individui e per la nazione: “il Kever Rachel” (la Tomba di Rachele).
Nei suoi ultimi istanti, Rachele è riuscita a dare un nome al tenero bambino, che, appunto, sta per diventare orfano tra pochi istanti. Lo chiama “Ben-Oni“. Il significato di questo nome esprime l’immenso dolore di Rachel. “Ben-Oni” può essere interpretato come “figlio del mio dolore“, secondo Rashi. Rachel, che aveva aspettato tanto per avere un figlio e per la quale questo era un secondo figlio, guarda il suo bambino con le forze che le sono rimaste e vede in lui il riflesso del terribile dolore di una madre che non merita di crescere il proprio figlio.
Ma Giacobbe cambia leggermente il nome “Ben-Oni” e lo chiama “Benyamin” – “figlio della mano destra”, nato in Canàan che è a sud/destra per chi proviene da Aram Naharàim oppure “figlio della tarda età” (la parola “giorni” -> “yamim” si trasforma in “yamin”, come scritto nel libro del profeta Daniel, cap. 12 ver. 13: “לְקֵ֥ץ הַיָּמִֽין”). Perché Giacobbe cambia il nome datogli da Rachele, e qual è il significato del nuovo nome che conferisce a suo figlio?
Uno dei più grandi commentatori biblici del Medioevo, il Ramban (Rabbi Moshe ben Nachman Girondi, Spagna-Israele, XIII secolo e noto anche come Nachmanide), ha dato una sua spiegazione al cambio di nome. Giacobbe non alterò il nome del bambino ma assegnò un nuovo significato al nome dato da Rachele. “Ben-Oni”, quindi, può essere interpretato come “figlio del mio dolore”, ma può anche essere inteso come “figlio della mia forza”. Per sottolineare il nuovo significato del nome, Giacobbe lo chiama “Benyamin” – “figlio della mano destra”. La mano destra simboleggia la forza e il successo. Il nome originale rimane “Ben-Oni” come determinato da Rachel, ma il suo significato si trasforma da dolore e lutto a forza e successo.
Con queste parole illuminanti Giacobbe ci indica la strada per uscire da situazioni difficili. Non per sopprimere il dolore e il lutto, ma per trasformarli in un catalizzatore di forza e successo. Invece di soccombere alla disperazione, possiamo coltivare il desiderio di riempire il vuoto, di rimediare alle mancanze, di agire per il bene e di lottare contro il male. Il dolore stesso può paralizzarci e portare alla depressione, ma possiamo crescere, evolvere da questo dolore che ci travolge, traendo forza per trasformare la storia dolorosa in una storia di trionfo ed eroismo.