L’offerta del Ringraziamento – Parashat Tzav
di Rabbino Lord Jonathan Sacks zt”l
tradotto ed adattato da David Malamut
Tra i sacrifici descritti nella Parasha di questa settimana c’è il korban todah, l’offerta di ringraziamento:
<<Se l’offrirà per ringraziamento, presenterà insieme al sacrifizio di ringraziamento focacce azzime intrise coll’olio, e focacce di pasta molle unte coll’olio, e fior di farina fritto, (fatto in) focacce intrise coll’olio.>> (Levitico 7, 12)
Sebbene siamo stati senza sacrifici per quasi duemila anni, una traccia dell’offerta di ringraziamento sopravvive ancora oggi, sotto forma della benedizione nota come Hagomel: “Colui che concede beni agli indegni“, recitata nella sinagoga, al momento della lettura della Torah, da chi è sopravvissuto a una situazione di pericolo.
Cosa costituisce una situazione pericolosa? I Saggi (trattato di Brachot 54b) trovarono la risposta nel Salmo 107, un canto sul tema del ringraziamento, che inizia con le parole più note di gratitudine religiosa nell’ebraismo, Hodu la-Shem ki tov, ki le-olam chasdo, “Rendete grazie al Signore perché la sua misericordia è eterna” (Salmo 107).
Il salmo stesso descrive quattro situazioni specifiche:
1. Attraversando il mare:
“Alcuni solcarono il mare su navi;
erano mercanti sulle acque possenti…
Salirono fino al cielo e scesero negli abissi;
nel pericolo il loro coraggio si sciolse…
Allora gridarono al Signore nella loro angoscia,
ed egli li trasse fuori dalla loro angoscia.
Si calmò la tempesta fino a un sussurro;
le onde del mare si placarono.”
2. Attraversare un deserto:
“Alcuni vagavano per terre desolate,
senza trovare la strada per una città dove stabilirsi.
Erano affamati e assetati,
e la loro vita si esaurì.
Allora gridarono al Signore nella loro angoscia,
ed egli li liberò dalle loro angosce.”
3. Guarigione da una malattia grave:
“Detestarono ogni cibo
e si avvicinarono alle porte della morte.
Allora gridarono al Signore nella loro angoscia,
ed egli li salvò dalle loro angosce.
Mandò la sua parola e li guarì;
li salvò dalla tomba.”
4. Liberazione dalla prigionia:
“Alcuni sedevano nelle tenebre e nell’oscurità più profonda,
prigionieri che soffrivano in catene di ferro…
Allora gridarono al Signore nella loro angoscia,
ed egli li salvò dalla loro angoscia.
Li trasse fuori dall’oscurità e dall’oscurità più profonda
e spezzò le loro catene (Brachot 54b).”
Ancora oggi, queste sono le situazioni di pericolo (molte delle quali, al giorno d’oggi, includono sia i viaggi aerei che quelli marittimi) in cui pronunciamo Hagomel quando le superiamo sane e salve.
Nel suo libro “A Rumour of Angels“, il sociologo americano Peter Berger descrive quelli che definisce “segnali di trascendenza“: fenomeni all’interno della situazione umana che indicano qualcosa di oltre. Tra questi, include l’umorismo e la speranza. Non c’è nulla in natura che spieghi la nostra capacità di riformulare situazioni dolorose in modo tale da poterne ridere, né c’è nulla che possa spiegare la capacità umana di trovare un significato anche nel profondo della sofferenza.
Queste non sono, nel senso classico, prove dell’esistenza di Dio, ma prove legate all’ esperienza personale. Ci dicono che non siamo concatenazioni casuali di geni egoisti che si riproducono ciecamente. I nostri corpi possono essere prodotti della natura (“polvere sei, e in polvere tornerai“), ma la nostra mente, i nostri pensieri, le nostre emozioni, ovvero tutto ciò che si intende con la parola “anima“, non lo sono. C’è qualcosa dentro di noi che si protende verso qualcosa che ci trascende: l’anima dell’universo, il “Tu” divino al quale ci rivolgiamo nella preghiera e al quale i nostri antenati, quando esisteva il Tempio, facevano le loro offerte.
Sebbene Berger non lo includa, uno dei “segnali di trascendenza” è sicuramente l’istintivo desiderio umano di ringraziare. Spesso è semplicemente umano. Qualcuno ci ha fatto un favore, ci ha fatto un dono, ci ha confortato nel dolore o ci ha salvato da un pericolo. Sentiamo di dovergli qualcosa. Quel “qualcosa” è todah, la parola ebraica che significa sia “riconoscimento” che “grazie“.
Ma spesso percepiamo qualcosa di più. Non è solo il pilota che vogliamo ringraziare quando atterriamo sani e salvi dopo un volo pericoloso; non solo il chirurgo, quando sopravviviamo a un’operazione; non solo il giudice o il politico quando veniamo rilasciati dalla prigione o dalla prigionia. È come se una forza superiore fosse all’opera, come se la mano che muove i pezzi sulla scacchiera umana stesse pensando a noi; come se il cielo stesso si fosse chinato e fosse venuto in nostro aiuto.
Le compagnie assicurative tendono a descrivere le catastrofi naturali come “cause di Dio“. Le emozioni umane fanno l’opposto. Dio è nella buona novella, nella sopravvivenza miracolosa, nella fuga dalla catastrofe. Quell’istinto, quello di offrire grazie a una forza, a una presenza, al di là delle circostanze naturali e dell’intervento umano, è di per sé un segnale di trascendenza. Questo è ciò che un tempo veniva espresso nell’offerta di ringraziamento, e lo è ancora, nella preghiera dell’Hagomel. Ma non è solo recitando l’Hagomel che esprimiamo il nostro ringraziamento.
Io ed Elaine eravamo in luna di miele. Era estate, il sole splendeva, la spiaggia era incantevole e il mare invitante. C’era solo un problema: non sapevo nuotare. Ma guardando il mare, notai che vicino alla riva era davvero molto basso. C’erano persone a diverse centinaia di metri dalla spiaggia, eppure l’acqua arrivava solo alle ginocchia. Cosa c’era di più sicuro, pensai, che semplicemente camminare in mare e fermarsi molto prima di essere fuori dalla mia portata?
Lo feci. Camminai per diverse centinaia di metri e, sì, il mare mi arrivava solo alle ginocchia. Mi voltai e iniziai a tornare indietro. Con mia sorpresa e shock, mi ritrovai improvvisamente inghiottito dall’acqua. Evidentemente, ero finito in una profonda buca nella sabbia. Ero fuori dalla mia portata. Faticai a nuotare. Non ci riuscii. Era pericoloso. Non c’era nessuno nelle vicinanze. Le persone che nuotavano erano molto lontane. Andai sott’acqua, più e più volte. Alla quinta volta, sapevo di stare annegando. La mia vita stava per finire. Che bel modo, pensai, di iniziare la luna di miele.
Certo, qualcuno mi ha salvato, altrimenti non starei scrivendo queste righe. Ancora oggi non so chi sia stato: a quel punto ero più o meno privo di sensi. So solo che devono avermi visto lottare. Sono venuti a nuoto, mi hanno afferrato e mi hanno portato in salvo. Da allora, le parole che pronunciamo ogni giorno al risveglio hanno avuto un profondo significato per me: “Ti ringrazio, Dio vivo e perenne, perché mi hai restituito la vita: grande è la tua fedeltà“. Chiunque sia sopravvissuto a un grande pericolo sa cosa significa sentire, non solo essere astrattamente consapevoli, che la vita è un dono di Dio, che si rinnova ogni giorno.
La prima parola di questa preghiera, Modeh, deriva dalla stessa radice ebraica di Todah, “ringraziamento“. Lo stesso vale per la parola Yehudi, “ebreo”. Abbiamo preso il nome dal quarto figlio di Giacobbe, Giuda. A sua volta ricevette il nome da Lia, che alla sua nascita disse: “Questa volta ringrazierò [alcuni lo traducono con “loderò”] Dio” (Genesi 29,35).
Essere ebreo significa offrire grazie. Questo è il significato del nostro nome e il gesto costitutivo della nostra fede.
Ci furono ebrei che, dopo l’Olocausto, cercarono di definire l’identità ebraica in termini di sofferenza, vittimismo, sopravvivenza. Un teologo parlò di un 614° comandamento: Non concederai a Hitler una vittoria postuma. Lo storico Salo Baron definì questa interpretazione “lacrimosa/in lacrime” della storia: una storia scritta tra le lacrime. Io, personalmente, non posso essere d’accordo. Sì, c’è sofferenza ebraica. Eppure, se fosse stato solo questo, gli ebrei non avrebbero fatto ciò che in realtà la maggior parte ha fatto: trasmettere la propria identità ai figli come eredità più preziosa.
Essere ebrei significa provare un senso di gratitudine; considerare la vita stessa come un dono; essere in grado di vivere la sofferenza senza esserne definiti; dare alla speranza la vittoria sulla paura. Essere ebrei significa offrire gratitudine.