L’estetica nell’ebraismo
di Rabbino Lord Jonathan Sacks zt”l
tradotto ed adattato da David Malamutdi Rabbino Lord Jonathan Sacks zt”l
Nella Parasha di Tetzaveh, il ruolo dei sacerdoti nel servizio del Tabernacolo è al centro della scena. Per una volta, la ribalta non è più puntata su Mosè, ma su suo fratello Aaronne, il Sommo Sacerdote. Leggiamo dei compiti del sacerdozio, delle loro vesti d’ufficio e della loro consacrazione, nonché di ulteriori dettagli sul Tabernacolo stesso.
Perché la Torah è così specifica ed enfatica, nella Parsha di questa settimana, riguardo agli abiti che devono essere indossati dai Kohanim (Sacerdoti) e dal Kohen Gadol (Sommo Sacerdote)?
<< E questi sono gli abiti che faranno: pettorale, dorsale, manto, tonaca trapunta, mitra, e cintura. Faranno cioè abiti santi per Aronne tuo fratello e pe’ figli suoi, coi quali saranno sacerdoti a me. >> (Esodo 28, 4)
In generale, l’ebraismo è scettico riguardo alle apparenze. Saul, il primo re d’Israele, era all’altezza della situazione. Era “dalle spalle in su” più alto di chiunque altro (Primo Libro di Samuele 9, 2). Eppure, sebbene fosse fisicamente alto, era moralmente piccolo. Ha seguito le persone invece di guidarle. Quando Dio disse a Samuele che aveva rigettato Saul e che Samuele avrebbe dovuto ungere un figlio di Yishai come re, Samuele andò a casa di Yishai e vide che uno dei suoi figli, Eliav, era adatto alla parte. Pensava di essere colui che Dio aveva scelto. Dio, però, gli dice che si sbaglia:
<<E Saul disse ai suoi servi: Provvedetemi pure un uomo che suoni bene e conducetelo a me.>> (Primo Libro di Samuele 16, 7)
Le apparenze ingannano. Infatti, come accennato prima in questi studi, la parola ebraica per indumento, begged, deriva dalla stessa parola ebraica che significa “tradire” – come nella confessione “Ashamnu bagadnu”, “Siamo colpevoli, abbiamo tradito”. Giacobbe usa gli abiti di Esaù per ingannare. I fratelli di Giuseppe fanno altrettanto con il suo mantello macchiato di sangue. Ci sono sei esempi di questo tipo solo nel libro della Genesi. Perché allora Dio comandò che i Kohanim indossassero indumenti distintivi come parte del loro servizio nel Tabernacolo e poi nel Tempio?
La risposta sta nella frase di due parole che appare due volte nella nostra Parsha, definendo ciò che i paramenti sacerdotali dovevano rappresentare: le-kavod ule-tifaret, “per dignità [oppure “onore”] e bellezza“. Queste sono parole insolite nella Torah, almeno in un contesto umano. La parola tifferet – bellezza o gloria – appare solo tre volte nella Torah, due volte nella nostra Parsha (Esodo 28, 2, Esodo 28, 40) e una volta, poeticamente e con un senso un po’ diverso, in Deuteronomio 26, 19.
La parola kavod (tradotto come “dignità” o “onore“) appare sedici volte, ma in quattordici (2×7) di questi casi il riferimento è alla gloria di Dio. Le due volte che compaiono nella nostra Parsha sono le uniche occasioni in cui kavod viene applicato a un essere umano. Allora cosa sta succedendo qui?
La risposta è che questi casi rappresentano la dimensione estetica. Questo non sempre ha un posto di rilievo nel giudaismo. È qualcosa che colleghiamo naturalmente a culture che sono praticamente un mondo a parte rispetto a quello dalla Torah. I grandi imperi, Mesopotamia, Egitto, Assiria, Babilonia, Grecia e Roma, costruirono palazzi e templi monumentali. Le corti reali erano caratterizzate da magnifici abiti, mantelli, corone e insegne, ogni grado con la propria uniforme e i propri ornamenti. Il giudaismo, al contrario, sembra spesso quasi puritano nel suo evitare sfarzo e ostentazione. Adorando il Dio invisibile, l’ebraismo tendeva a svalutare l’aspetto visivo a favore dell’orale e dell’udito: parole udite piuttosto che apparenze visive.
Tuttavia, il servizio del Tabernacolo e del Tempio erano diversi. Qui le apparenze, ovvero dignità e bellezza, facevano la differenza. Perché? Maimonide dà questa spiegazione:
<<Per esaltare il Tempio, coloro che vi prestavano servizio ricevevano grandi onori, e per questo i sacerdoti e i leviti si distinguevano dagli altri. Era stato comandato che il sacerdote fosse vestito adeguatamente con gli abiti più splendidi e raffinati, “vesti sacre per la gloria e per la bellezza“… poiché la moltitudine non stima l’uomo dalla sua vera forma ma dalla… bellezza delle sue vesti, e il Tempio doveva essere tenuto con grande riverenza da tutti.>> (La guida dei perplessi, capitolo III, 45)
La spiegazione è chiara, ma c’è anche un accenno di disprezzo. Maimonide sembra dire che per coloro che comprendono veramente la natura della vita religiosa, le apparenze non dovrebbero avere alcuna importanza, ma “la moltitudine”, le masse, la maggioranza, non sono così. Sono impressionati dallo spettacolo, dalla grandezza visibile, dallo scintillio dell’oro, dai gioielli della corazza, dal ricco sfarzo di scarlatto e porpora e dalla purezza incontaminata delle vesti di lino bianco.
Nel suo libro The Body of Faith (1983), Michael Wyschogrod sostiene con maggiore forza la dimensione estetica del giudaismo. Nel corso della storia, lui sostiene, l’arte e il culto sono stati intimamente connessi, e l’ebraismo non fa eccezione.
“L’architettura del Tempio e i suoi contenuti richiedono una riflessione spaziale che stimola le arti visive come nient’altro. Va ricordato che tra i tanti manufatti che le civiltà passate hanno lasciato, quelli destinati all’uso rituale sono quasi sempre i più elaborati ed esteticamente i più significativi.”
Wyschogrod afferma che il giudaismo postbiblico, nella maggior parte dei casi, non ha contribuito in maniera forte ed eccezionale all’arte e alla musica. Ancora oggi il mondo dell’ebraismo religioso è lontano da quello dei grandi scrittori, pittori, poeti e drammaturghi. A dire il vero, la musica religiosa popolare è ricca. Ma nel complesso, dice, “i nostri artisti tendono a lasciare la comunità ebraica”. Questo, secondo lui, rappresenta una crisi spirituale.
“L’immaginazione del poeta è un riflesso della sua vita spirituale. Il mito e la metafora sono la valuta, il modo di espressione, sia della religione che della poesia. La poesia è uno dei domini più potenti in cui ha luogo l’espressione religiosa. E lo stesso vale per la musica, il dramma, la pittura e la danza.”
Rav Abraham Kook sperava che il ritorno a Sion stimolasse una rinascita dell’arte ebraica, e che c’è un posto significativo per la bellezza nella vita religiosa, specialmente nell’Avodah, cioè lavoro o servizio, che una volta significava sacrificio e ora significa preghiera.
Un’immensa mole di recenti ricerche in neuroscienze, psicologia evolutiva ed economia comportamentale ha stabilito senza ombra di dubbio che non siamo, per la maggior parte, animali razionali. Non è che siamo incapaci di ragionare, ma che la ragione da sola non ci spinge all’azione. Per questo, abbiamo bisogno di emozioni, e le emozioni stesse vanno più in profondità della corteccia prefrontale, il centro di riflessione cosciente del cervello. È proprio qui che gli stimoli visivi svolgono un ruolo chiave. L’arte parla alle emozioni. Ci fa muovere in modi che vanno più in profondità delle parole.
Ecco perché la grande arte ha una spiritualità che non può essere espressa se non attraverso l’arte – e questo si applica alla bellezza visiva e allo sfarzo del servizio del Tabernacolo e del Tempio, comprese le vesti e le cinture dei sacerdoti. C’è un poema nella ripetizione del Musaf della tefilah di Yom Kippur da parte dello Shaliach Tzibur che lo esprime alla perfezione. Si tratta di Mareih Kohen, l’apparizione del Sommo Sacerdote una volta concluso il suo servizio ed esce dal Santo dei Santi:
“Come lo splendore della volta del cielo,
Come un lampo che risplende nello splendore degli angeli,
Come l’azzurro celeste nel filo delle frange,
Come l’iridescenza dell’arcobaleno in mezzo alle nuvole,
Come la maestà di cui la Roccia ha rivestito le sue creature,
Come una rosa piantata in un giardino di delizie,
Come un diadema posto sulla fronte del Re,
Come lo specchio dell’amore nel volto dello sposo,
Come un’aureola di purezza da una mitra di purezza,
Come uno che dimora in segreto, implorando il Re,
Come la stella del mattino che splende ai confini dell’Oriente –
Era l’apparizione del [Sommo] Sacerdote.”
E ora possiamo definire la natura dell’estetica nel giudaismo. È arte dedicata dedito alla maggior gloria di Dio. Questa è l’implicazione del fatto che la parola kavod, “gloria”, è attribuita nella Torah solo a Dio – e al Kohen che officia nella casa di Dio.
L’ebraismo non crede nell’arte fine a sé stessa, ma nell’arte al servizio di Dio, restituendo a Dio come offerta votiva un po’ della bellezza che Egli ha creato in questo mondo creato. A rischio di semplificare eccessivamente, si potrebbe definire così la differenza tra l’antico Israele e l’antica Grecia: dove i greci credevano nella santità della bellezza, gli ebrei credevano nell’hadrat kodesh, la bellezza della santità. C’è posto per l’estetica ad Avodah. Nelle parole che compaiono nel Cantico del mare: “Zeh Keili ve-anvehu”, “Questo è il mio Dio e io lo abbellirò”. Perché la bellezza ispira l’amore, e dall’amore scaturisce il servizio del cuore.