Le ultime lacrime –  Parashat Vayechi

 In Dall'Ufficio Rabbinico, Parashà della Settimana

di Rabbino Lord Jonathan Sacks zt”l

tradotto ed adattato da David Malamut

In quasi ogni fase del difficile incontro tra Giuseppe e la sua famiglia in Egitto, Giuseppe piange. Ci sono sette scene di lacrime, da parte di Giuseppe:

1. Quando i fratelli si presentarono per la prima volta al suo cospetto in Egitto, si dissero l’un l’altro:

<<Parlando poi tra di loro dissero: Ma noi siam colpevoli per (ciò che abbiam fatto soffrire il) nostro fratello, di cui abbiam veduto l’animo angosciato, mentr’egli ci supplicava, e non (gli) demmo ascolto. Ecco perché ci accade questa sventura.

E Ruben rispondendo disse loro: Non vi diss’io, che non commettiate un misfatto verso il giovinetto? Ma voi non (mi) deste ascolto. Or ecco, ci vien chiesto conto del suo sangue. Essi non sapevano che Giuseppe comprendeva [quel che parlavano nella loro lingua], poiché tra essi e lui eravi l’interprete. Egli scostassi da loro, e pianse; indi tornato ad essi, parlò con loro, e prese da loro Simeone, e lo incarcerò sotto i loro occhi.>> (Genesi 42, 21-24)

2. La seconda volta, quando portarono Beniamino con loro e, commosso alla vista del fratello, Giuseppe corse fuori e cercò un posto dove piangere:

<< Ed egli, alzati gli occhi, e visto Binjamìn suo fratello, figlio di sua madre, disse: È egli questo il vostro fratel minore, di cui mi parlaste? E saggiunse: Iddio ti sia propizio, figliuol mio. E tosto Giuseppe, infiammatasi in lui la pietà verso suo fratello, e volendo piangere, entrò in camera, e pianse colà. >> (Genesi 43, 29-30)

3. Quando, dopo l’appassionato discorso di Giuda, Giuseppe sta per rivelare la sua identità:

<< Giuseppe non potè più farsi violenza (secondo che richiedeasi) pei numerosi astanti, e gridò: Fate uscire ogni persona d’intorno me. – E nessuno rimase con lui quando Giuseppe si diede a conoscere a’ suoi fratelli. Egli diede in sonoro pianto, sicchè l’udirono gli Egizi, e n’ebbe notizia la casa di Faraone. >> (Genesi 45, 1-2)

4. Subito dopo aver rivelato la sua identità:

<< Indi si gettò al collo di suo fratello Binjamìn e pianse; e Binjamìn pianse sul collo di lui. Baciò tutti i suoi fratelli, e pianse sopra di essi: e [soltanto] dopo ciò i suoi fratelli parlarono con lui. >> (Genesi 45, 14-15)

5. Quando incontra di nuovo suo padre dopo la loro lunga separazione:

<< Giuseppe, attaccata la sua carrozza, andò incontro a suo padre a Gòscen; e tosto che si mostrò a lui, questi gli si gettò al collo, e pianse sul suo collo lungamente. >> (Genesi 46, 29)

6. Alla morte del padre:

<< Giuseppe, gittatosi sulla faccia di suo padre, pianse sopra il suo corpo e lo baciò. >> (Genesi 50, 1)

7. Qualche tempo dopo la morte di suo padre:

<< I fratelli di Giuseppe, visto ch’era morto il loro padre, pensarono: Potrebb’essere che Giuseppe ci serbasse odio, e volesse renderci tutto il male che gli abbiam fatto. Fecero quindi dire a Giuseppe: Tuo padre ha comandato innanzi di morire, con dire: Direte così a Giuseppe: Deh! perdona di grazia la colpa dei tuoi fratelli ed il loro mancamento, mentre ti hanno trattato male; ed ora perdona deh! la colpa dei servi del Dio di tuo padre. – E Giuseppe pianse quando gli si parlò. >> (Genesi 50, 15-17)

Nessuno piange tanto quanto Giuseppe. Esaù pianse quando scoprì che Giacobbe aveva ricevuto la benedizione al posto suo (Esaù disse a suo padre: Hai tu forse, padre mio, una benedizione sola? Benedici anche me, padre mio! Ed Esaù proruppe in un sonoro pianto. Genesi 27, 38). Giacobbe pianse quando vide per la prima volta l’amore della sua vita, Rachele (Giacobbe baciò Rachele, e diede in sonoro pianto. Genesi 29, 11). Entrambi i fratelli, Giacobbe ed Esaù, piansero quando si incontrarono di nuovo dopo il loro lungo allontanamento (Esaù gli corse incontro e l’abbracciò, e gittatoglisi sul collo lo baciò; e piansero. Genesi 33, 4). Giacobbe pianse quando gli fu detto che il suo amato figlio Giuseppe era morto (Tutt’i suoi figli e tutte le sue figlie si accinsero a confortarlo, ma egli ricusò di darsi conforto; anzi disse: No; ch’io voglio per (la perdita di) mio figlio scendere in lutto alla tomba. – Così il padre seguitò a piangerlo. Genesi 37, 35).

Ma le sette scene del pianto di Giuseppe, a tutti gli effetti, non hanno paragoni. Coprono l’intero spettro delle emozioni, dal ricordo doloroso alla gioia di ritrovarsi, prima con suo fratello Beniamino, poi con suo padre Giacobbe. Ci sono le lacrime complesse immediatamente prima e dopo aver rivelato la sua identità ai suoi fratelli, e ci sono le lacrime di lutto sul letto di morte di Giacobbe. Ma le più intriganti sono le ultime, le lacrime che versa quando sente che i suoi fratelli temono che si vendichi di loro ora che il padre non è più vivo.

In un bel tema, “Le lacrime di Giuseppe”, Rav Aharon Lichtenstein (ricevette il Premio Israele nel 2014 per i suoi contributi alla letteratura ebraica https://www.timesofisrael.com/renowned-rabbi-aharon-lichtenstein-dies-at-81/) suggerisce che quest’ultima scena di pianto, la settima dopo la morte di Giacobbe, è un’espressione del prezzo che Giuseppe stesso paga per la realizzazione dei suoi sogni e la sua elevazione a una posizione di potere. Giuseppe ha fatto tutto ciò che poteva per i suoi fratelli. Li ha sostenuti in un momento di carestia. Ha dato loro non solo rifugio, ma un posto d’onore nella società egiziana. E ha reso chiaro quanto più possibile che non nutre rancore contro di loro per quello che gli hanno fatto tanti anni prima. Come ha detto quando ha rivelato loro la sua identità:

<< Ora però non vi contristate, e non vi rincresca d’avermi venduto verso qui; perocchè Iddio ha voluto ch’io vi precedessi, ond’essere strumento della vostra conservazione. Poiché son già due anni ch’è carestia nel paese, ed ancora per cinque anni non vi sarà nè arare, nè mietere. E Iddio fece sì ch’io vi precedessi, per darvi alcun residuo sulla terra, ed anzi conservarvi in vita in numerosa gente scappata al pericolo. Quindi non siete voi che m’avete mandato quì, ma è Iddio, il quale mi costituì qual padre a Faraone, e padrone di tutta la casa sua, e dominante su tutto il paese d’Egitto. >> (Genesi 45, 5-8)

Cos’altro poteva dire? Eppure, dopo tutti questi anni, i suoi fratelli non si fidano di lui e temono che possa ancora cercare di far loro del male.

Di seguito il commento di Rav Lichtenstein:

<< “In questo momento, Giuseppe scopre i limiti del potere puro. Scopre quanto il legame umano, il legame personale, il legame familiare abbiano molto più valore e importanza del potere, sia per la persona stessa che per tutti coloro che la circondano”. Giuseppe “piange per la debolezza implicita nel potere, per il prezzo terribile che ha pagato per questo. I suoi sogni si sono effettivamente realizzati, ad un certo livello, ma la tragedia rimane altrettanto reale. I brandelli lacerati della famiglia non sono stati ricomposti completamente.” >>

In superficie e all’apparenza, Giuseppe detiene tutto il potere. La sua famiglia dipende interamente da lui. Ma a un livello più profondo è il contrario. Egli desidera ancora la loro accettazione, il loro riconoscimento, la loro vicinanza. E alla fine dovrà dipendere da loro per portare le sue ossa dall’Egitto quando arriverà il momento della redenzione e del ritorno (Indi Giuseppe fece giurare i figli d’Israel con dire: Quando Dio si mostrerà memore di voi, trasporterete le mie ossa di qui. Genesi 50, 25).

L’analisi di Rav Lichtenstein ci ricorda il commento di Rashi e Ibn Ezra all’ultimo versetto del Libro di Ester. Dice che ” Poiché il Giudeo Mardocheo era il secondo dopo il re Assuero: grande fra i Giudei, e amato dalla moltitudine dei suoi fratelli; cercò il bene del suo popolo, e parlò per la pace di tutta la sua stirpe.” (Meghilat Ester 10, 3), “amato da moltitudine dei suoi fratelli” ma non da tutti. Rashi (citando il trattato Megillah 16b) dice che alcuni membri del Sinedrio erano critici nei suoi confronti perché il suo coinvolgimento politico (la sua “vicinanza al re”) lo distraeva dal tempo che trascorreva studiando la Torah. Ibn Ezra dice semplicemente:

<< È impossibile soddisfare tutti, perché le persone sono invidiose [del successo degli altri] >>

Giuseppe e Mordechai/Ester sono esempi supremi di ebrei che raggiunsero posizioni di influenza e potere nei circoli dei gentili, di non ebrei. Nei tempi moderni venivano chiamati Hofjuden, (“ebrei di corte”), e altri ebrei spesso nutrivano sentimenti profondamente ambivalenti nei loro confronti.

A un livello più profondo, le osservazioni di Rav Lichtenstein ricordano la famosa dialettica padrone-schiavo di Georg Wilhelm Friedrich Hegel, un’idea che ebbe un’enorme influenza sul pensiero del diciannovesimo secolo, soprattutto marxista. Hegel sosteneva che la storia antica dell’umanità fu segnata da una lotta per il potere in cui alcuni divennero padroni e altri schiavi. A prima vista, i padroni governano mentre gli schiavi obbediscono. Ma in realtà il padrone dipende dai suoi schiavi: il padrone ha tempo libero solo perché essi lavorano, ed è padrone solo perché è riconosciuto come tale dai suoi schiavi.

Lo schiavo, attraverso il suo lavoro, acquista la propria dignità da produttore. Pertanto, lo schiavo ha la “libertà interiore” mentre il padrone ha la “schiavitù interiore”. Questa tensione crea una dialettica, un conflitto elaborato attraverso la storia, che raggiunge l’equilibrio solo quando non ci sono né padroni né schiavi, ma semplicemente esseri umani che si trattano l’un l’altro non come mezzi per raggiungere un fine ma come fini a sé stessi. Quindi, le lacrime di Giuseppe sono un preludio al dramma padrone-schiavo che sta per essere rappresentato nel libro dell’Esodo tra il faraone e gli Israeliti.

La profonda intuizione di Rav Lichtenstein nel testo ci ricorda fino a che punto la Torah, il Tanach e l’ebraismo nel suo insieme siano una critica sostenuta del potere. Prima dell’era messianica non possiamo farne a meno. (Consideriamo le tragedie che gli ebrei subirono nei secoli in cui ne furono privi.) Ma il potere aliena. Genera sospetto e sfiducia. Diminuisce coloro contro cui viene utilizzato, e quindi diminuisce coloro che lo utilizzano.

Perfino Giuseppe, chiamato “Yosef HaTzaddik: Giuseppe il Giusto”, piange quando vede fino a che punto il potere lo distingue dai suoi fratelli. L’ebraismo riguarda un ordine sociale alternativo che dipende non dal potere ma dall’amore, dalla lealtà e dalla responsabilità reciproca creata dal patto. Ecco perché Nietzsche, che basava la sua filosofia sulla “volontà di potere”, vedeva giustamente l’ebraismo come l’antitesi di tutto ciò in cui credeva.

Il potere può essere un male necessario, ma rimane lo stesso un male, e meno ne abbiamo bisogno, meglio è.

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