L’autore della nostra vita – Parashat Miketz

 In Dall'Ufficio Rabbinico, Parashà della Settimana

di Rabbino Lord Jonathan Sacks zt”l

tradotto ed adattato da David Malamut

Alla fine della precedente parasha, vediamo il primo vero tentativo di Giuseppe di prendere in mano il suo destino, e fallì. O almeno così sembrava.

Consideriamo la storia finora, come esposta nel parasha della scorsa settimana. Quasi tutto ciò che accade nella vita di Giuseppe rientra in due categorie. 

Nella prima categoria rientrano le cose che gli sono state fatte. Suo padre lo ama più degli altri suoi figli. Gli regala un mantello particolarmente ricco di ricamo. I suoi fratelli sono invidiosi e provano odio nei suoi confronti. Il padre lo manda a vedere come stanno i fratelli, badando alle greggi lontane. Non riesce a trovarli e deve fare affidamento su uno sconosciuto per indicargli la giusta direzione. I fratelli tramano per ucciderlo, gettarlo in una fossa e poi venderlo come schiavo. Viene portato in Egitto. Viene acquisito come schiavo da Potifar. La moglie di Potifar lo trova attraente, tenta di sedurlo e, avendo fallito, lo accusa falsamente di stupro, a seguito del quale viene imprigionato.

Questo è straordinario. Giuseppe è al centro dell’attenzione ogni volta che è, per così dire, sul palco, eppure è, ancora e ancora, colui che viene subito piuttosto che colui che fa, un oggetto delle azioni di altre persone piuttosto che il soggetto delle proprie.

La seconda categoria è ancora più notevole. Giuseppe fa delle cose. Sogna. Gestisce magnificamente la casa di Potifar. Organizza una prigione. Interpreta i sogni del coppiere e del panattiere (fornaio). Ma, in una sequenza unica di descrizioni, la Torah attribuisce esplicitamente a Dio le sue azioni e il loro successo.

Ecco Giuseppe nella casa di Potifar:

<< Il Signore fu con Giuseppe, e questi fu uomo prosperoso; quindi rimase in

asa dell’egizio suo padrone. Il suo padrone vedendo ch’il Signore era con lui, e che quanto faceva il Signore gli facea prosperar nelle mani; >> (Genesi 39, 2-3)

<< Ora, dacchè lo costituì governatore di casa sua, ed amministratore di quanto possedeva, il Signore benedisse la casa dell’egizio in grazia di Giuseppe; e la divina benedizione mostravasi in tutto ciò che gli apparteneva, sì in casa, che in campagna. >> (Genesi 39, 5)

Quando Giuseppe è in prigione, leggiamo:

<< Ed il Signore fu con Giuseppe, e lo rendette amabile, e lo mise in grazia del capo della prigione. Ed il capo della prigione diede in mano di Giuseppe tutti i detenuti ch’erano nella prigione; e tutto ciò che colà facevasi, era egli che faceva [veniva fatto secondo i suoi ordini]. Il capo della prigione non gli teneva l’occhio adosso in nessuna cosa di quanto faceva; poichè il Signore era con lui, e quanto egli faceva, il Signore faceva prosperare. >> (Genesi 39, 21-23)

Ed ecco Giuseppe che interpreta i sogni:

<< …E Giuseppe disse loro: Appartengono a Dio le interpretazioni. Narrate, di grazia, a me. >> (Genesi 40, 8)

Di nessun’altra figura del Tanach questo è detto così chiaramente, coerentemente e ripetutamente. Giuseppe sembra deciso, organizzato e di successo, e così appariva agli altri. Ma, dice la Torah, non era lui ma Dio ad essere responsabile sia di ciò che fece sia del suo successo. Anche quando resiste alle avance della moglie di Potifar, rende esplicito che è Dio a rendere moralmente impossibile ciò che lei vuole:

<< Come dunque potrei commettere sì grande misfatto, e peccare [quando pure nessuno il venga a sapere] contro a Dio? >> (Genesi 39, 9)

L’unico atto chiaramente attribuito a lui avviene all’inizio della storia, quando porta una “cattiva notizia” sui suoi fratelli, i figli delle due ancelle, Bilhah e Zilpah. A parte questo, ogni svolta del suo destino in costante cambiamento è il risultato dell’azione di qualcun altro, di un altro essere umano o di Dio.

Ecco perché ci sediamo e notiamo quando, alla fine della parasha precedente, Giuseppe prende il destino nelle sue mani. Dopo aver detto al coppiere che entro tre giorni sarebbe stato graziato dal Faraone e riportato alla sua posizione precedente, e non avendo alcun dubbio che ciò sarebbe accaduto, gli chiede di intercedere la sua causa presso il Faraone e di assicurarsi la sua libertà:

<< Ah! sì, se tu serberai appo te memoria di me, quando sarai felice, e vorrai deh! usarmi misericordia; mi menzionerai a Faraone, e mi farai scire di questa casa. >> (Genesi 40, 14)

Che succede? “Il capo poi dei coppieri, lungi dal ricordarsi di Giuseppe, lo dimenticò.” (Gen. 40, 23)” Il raddoppio del verbo è potente. Non si ricordò. Si dimenticò. L’unica volta che Giuseppe cerca di essere l’autore della propria storia, fallisce. Il fallimento è decisivo.

La tradizione ha aggiunto un tocco finale al dramma. Con queste parole si conclude la parsha di Vayeshev, lasciandoci proprio nel punto in cui le sue speranze sono deluse. Diventerà grande? I suoi sogni si realizzeranno? La domanda “Cosa succede dopo?” è intensa e dobbiamo aspettare una settimana per scoprirlo.

Il tempo passa e con la massima improbabilità (anche il Faraone ha sogni, e nessuno dei suoi maghi o saggi può interpretarli, cosa già strana, dato che l’interpretazione dei sogni era una specialità degli antichi egizi), apprendiamo la risposta. ” Ora, in capo a due anni interi…” Queste, le parole con cui inizia la nostra Parsha, sono la frase chiave. Ciò che Giuseppe voleva che accadesse, accadde. Ha lasciato la prigione. È stato liberato. Ma non prima che fossero trascorsi due anni interi.

Tra il tentativo e l’esito, è successo qualcosa. Questo è il significato del trascorrere del tempo. Giuseppe pianificò il suo rilascio e fu rilasciato, ma non perché lo avesse pianificato lui stesso. Il suo tentativo si è concluso con un fallimento. Il coppiere si era completamente dimenticato di lui. Ma Dio non si è dimenticato di lui. Dio, non Giuseppe, provocò la sequenza di eventi, in particolare i sogni del Faraone, che portarono alla sua liberazione.

Ciò che vogliamo che accada, accade, ma non sempre quando ce lo aspettiamo, o nel modo in cui ci aspettiamo, o semplicemente perché volevamo che accadesse. Dio è il coautore del copione della nostra vita, e talvolta, come vediamo qui, ce lo ricorda facendoci aspettare e cogliendoci di sorpresa.

Questo è il paradosso della condizione umana così come intesa dal giudaismo. Da un lato siamo liberi. Nessuna religione ha insistito così enfaticamente sulla libertà e sulla responsabilità umana. Adamo ed Eva erano liberi di non peccare. Caino era libero di non uccidere Abele. Troviamo scuse per i nostri fallimenti: “non sono stato io”; “è stata colpa di qualcun altro”; “Non potevo farci niente”. Ma queste sono esattamente e nient’altro: scuse. Non è così. Siamo liberi e ci assumiamo la nostra responsabilità.

Eppure, come disse Amleto: “e sia lode all’audacia, in questo caso: l’avventatezza talvolta, diciamolo, ci soccorre laddove ci falliscono le nostre trame, le più meditate;

e ciò valga a insegnarci che c’è un Dio che dà forma e sostanza ai nostri fini,

comunque li abbozziamo” (Amleto, atto V, scena II, 10-11). Dio è intimamente coinvolto nella nostra vita. Guardando indietro alla mezza età o alla vecchiaia, spesso possiamo discernere, vagamente attraverso la nebbia del passato, che una storia stava prendendo forma, un destino che stava lentamente emergendo, guidato in parte da eventi al di fuori del nostro controllo. Non potevamo prevedere che questo incidente, quella malattia, questo fallimento, quell’incontro apparentemente casuale, anni fa, ci avrebbero portato in questa direzione. Eppure, ora, in retrospettiva, può sembrare come se fossimo un pezzo degli scacchi mosso da una mano invisibile che sapeva esattamente dove voleva che fossimo.

Era questo il punto di vista, secondo Giuseppe Flavio, che distingueva i farisei (gli artefici di quello che chiamiamo giudaismo rabbinico) dai sadducei e dagli esseni. I sadducei negarono il destino. Dicevano che Dio non interviene nella nostra vita. Gli esseni attribuivano tutto al destino. Credevano che tutto ciò che facciamo fosse predestinato da Dio. I farisei credevano sia nel destino che nel libero arbitrio. «È piaciuto a Dio che ci fosse una fusione [della divina provvidenza e della scelta umana] e che la volontà dell’uomo con le sue virtù e i suoi vizi fosse ammessa nel concilio della sorte» (Antichità, xviii, 1, 3).

Da nessuna parte questo è più chiaro che nella vita di Giuseppe raccontata nel libro della Genesi, e da nessuna parte più che nella sequenza di eventi raccontati alla fine della parasha della scorsa settimana e all’inizio di questa. Senza le azioni di Giuseppe, la sua interpretazione del sogno del coppiere e la sua richiesta di libertà, non avrebbe lasciato la prigione. Ma senza l’intervento divino sotto forma dei sogni del Faraone, ciò non sarebbe accaduto.

Questa è la paradossale interazione tra destino e libero arbitrio. Come disse Rabbi Akiva: “Tutto è previsto, ma è data la libertà di scelta” (Avot 3, 15). Il noto scrittore Isaac Bashevis Singer lo ha detto argutamente: “Dobbiamo credere nel libero arbitrio: non abbiamo scelta”. Noi e Dio siamo coautori della storia umana. Senza i nostri sforzi non possiamo ottenere nulla. Ma anche senza l’aiuto di Dio non possiamo ottenere nulla. L’ebraismo ha trovato un modo semplice per risolvere il paradosso. Per il male che facciamo, ci assumiamo la responsabilità. Per il bene che otteniamo, ringraziamo Dio. Giuseppe è il nostro mentore. Quando è costretto ad agire con durezza, piange. Ma quando racconta ai fratelli del suo successo, lo attribuisce a Dio. Così dovremmo vivere anche noi.

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