La voce delle donne ignorate dalle femministe risuona potente al Teatro Franco Parenti

 In Attualità

di Ilaria Myr

pubblicato su MOSAICO

Una serata molto intensa quella organizzata il 5 marzo dall’Associazione Setteottobre con la partecipazione di donne israeliane, ucraine e iraniane che hanno raccontato gli orrori della violenza e delle torture disumane subite da parte di estremisti religiosi, jihadisti, terroristi e regimi totalitari.

«L’8 marzo nelle piazze non si parlerà delle violenze subite dalle donne israeliane, ucraine, iraniane, ma anche da quelle cristiane in Nigeria, in Siria, in Yemen, ma anche quelle di Gaza, che devono essere liberate da Hamas: tutte donne dimenticate da un movimento femminista che tale non è più, che relativizza e distingue fra chi considerare e chi no. Affermare i valori dell’occidente e del femminismo universale è uno dei nostri obiettivi, e per questo abbiamo organizzato questa serata». Così Stefano Parisi, presidente dell’Associazione Setteottobre, ha introdotto la serata tenutasi al Teatro Franco Parenti il 5 marzo intitolata proprio “Femminismo universale”, con la partecipazione di donne israeliane, ucraine e iraniane che hanno raccontato in prima persona gli orrori della violenza e delle torture disumane subite da parte di estremisti religiosi, jihadisti, terroristi e regimi totalitari.

Stefano Parisi e Stefania Battistini (foto ©Lorenzo Ceva Valla)

«Sono momenti difficili: mentre noi parliamo tanti ostaggi sono reclusi a Gaza, non sappiamo se sopravviveranno, e molti di loro sono morti – ha continuato -. In Europa c’è una guerra orrenda, con una parte di Paesi che sostiene Putin o il regime iraniano solo per odio verso l’Occidente. Da un lato c’è una saldatura fra i movimenti pacifisti che chiedendo la pace immediata portano alla vittoria degli oppressori, e dall’altro c’è un nuovo pacifismo nazionalista egoista che non vuole combattere per i valori dell’Occidente. Davanti a tutto ciò siamo sconcertati, soffriamo. Ma le voci degli ostaggi liberati, che lottano per gli altri ancora in prigionia ci fanno intravedere la luce».

Anche Andrée Ruth Shammah, direttrice del Teatro, ha ribadito l’importanza e l’impegno del suo teatro nel sostenere i valori occidentali e nel dare voce a un’associazione come Setteottobre che per questi lotta, così come ai dissidenti iraniani e all’Ucraina, e ha annunciato che fra dicembre e gennaio si terrà nel teatro un grande festival sull’Iran.

La serata è poi entrata nel vivo con le testimonianze delle donne, introdotte con grande sensibilità ed empatia dalla giornalista della Rai Stefania Battistini, che ha vissuto, da inviata, sia la guerra in Ucraina che il post 7 ottobre in Israele. «Uno dei motti femministi era “sorella io ti credo”. Ma questo non sta succedendo per tutte le donne, e questa è una responsabilità collettiva», ha dichiarato la giornalista.

Con una dignità e una forza encomiabili, tutte le testimoni hanno donato ai partecipanti le proprie esperienze di dolore e sofferenza, nella convinzione che solo facendo sapere e raccontando i traumi subiti si possa costruire un futuro migliore.

 

Dal 2014 colpite dalla violenza russa

In collegamento video sono intervenute Alisa Kovalenko, regista ucraina, e Iryna Dovgan, presidente di Seva Ukraine, entrambe testimoni della violenza russa.

Alisa ha raccontato delle violenze iniziate già nel 2014, con l’invasione russa del Donbass, catturata mentre, ancora 24enne, filmava l’invasione, e torturata e violentata durante la prigionia. «Tutto ciò capitava mentre tutto il mondo credeva che non ci fosse un’invasione russa, ma credevano a una guerra civile – ha spiegato -. Io venivo torturata e nessuno sapeva». Una volta libera, ha sentito la necessità di unirsi ad altre donne che hanno subito violenza. Ma dopo l’invasione del 2022, fare sentire la propria voce è diventato ancora più urgente. «Dobbiamo gridare al mondo quello che sta succedendo e rompere il muro del silenzio». Per questo Alisa ha realizzato un filmato con le parole dirette di alcune di queste donne, «che continuano a vivere e lottare per la loro dignità».

Anche Iryna è stata stuprata e violentata, solo perché aveva portato del cibo ai militari ucraini. «Lei oggi è considerata un simbolo della resistenza ucraina, dopo che è stata legata a un palo con la bandiera ucraina e davanti a tutti picchiata e umiliata», ha raccontato l’interprete Tetyana Bezruchenko, anch’essa una attivista della causa ucraina. «Il governo non può fare nulla per le torture e le violenze, e noi restiamo sole con i nostri problemi – ha spiegato -. Per questo è necessario unirci e fare sentire le nostre voci». Ed è quello che fa l’associazione Seva Ukraine, di cui è presidente che accoglie le donne vittime per aiutarle in modo concreto.

L’inferno del 7 ottobre

Hanno poi raccontato la loro esperienza di sopravvissute al massacro del Nova Festival il 7 ottobre in Israele Hadar Sharvit e Yuval Tapuchi. «Quel giorno è stato subito chiaro che le donne erano un obiettivo dei terroristi di Hamas, una vera strategia di guerra», ha precisato Stefania Battistini, che poche ore dopo i massacri era in Israele per testimoniare ciò che era successo.

«Eravamo andati con amici al festival per celebrare l’amore e la vita, ma il paradiso è diventato presto l’inferno _ ha spiegato -. Prima i missili, poi gli spari, la fuga per tre ore nei campi, il nascondiglio in un frutteto dove ho sentito tutto ciò che succedeva: donne che venivano stuprate, urlavano e poi il silenzio, i terroristi che urlavano, uccidevano, i nostri soldati che cercavano di combattere. Quando il frutteto è stato incendiato, siamo fuggiti e ci siamo diretti verso una postazione dell’esercito a 150 metri da lì. Ma per tutto questo tempo pensavo che fosse arrivata la mia fine. Quando siamo arrivati lì, ho visto tutto quello che aveva sentito: sembrava un film dell’orrore: corpi ovunque, macchine bruciate, persone ferite. Ho incontrato mio padre, che era venuto a cercarmi, e dopo nove ore sono tornata a casa. Da lì inizia l’altra storia di sopravvivenza che non è ancora finita».

Oggi Hadar, accanto alla sua attività di maestra di matematica, affianca quella di guida al memoriale del Nova Festival. «Tutti gli ebrei e gli israeliani dovrebbero recarvisi per sentire l’energia che questa terra sprigiona – ha raccontato -, e perché fa parte della nostra storia, come l’Olocausto. Se vogliamo capire cosa è successo, dobbiamo guardare tutte le fotografie delle 360 persone trucidate lì, esposte nel memoriale».

Lo stesso orrore è quello raccontato da Yuval Tapuchi, che era nel gruppo di Hadar e altre 15 amici, prima di separarsi. «Quando una guardia ci ha detto di lasciare il luogo abbiamo cominciato a correre verso est, camminando più di 30 km, alcuni a piedi nudi in mezzo a spine e rocce, senza cibo, acqua e sotto il sole cocente. Dopo sei ore e mezzo abbiamo trovato la salvezza. Da allora provo qualcosa mai provato prima: la paura di morire. Sento in testa gli spari, le esplosioni, le urla, mi sveglio di notte e sobbalzo a ogni rumore. Per stare meglio è importante condividere la propria storia, e ripeterla, anche se molte persone non ci credono».

le due ragazze israeliane (da sinistra la seconda e la terza) e sullo sfondo i volti delle donne israeliane uccise al Festival Nova (foto ©Lorenzo Ceva Valla)

Lottare per la libertà, anche con 147 palline in corpo

Sadaf Baghbani (foto ©Lorenzo Ceva Valla)

Infine Sadaf Baghbani, attrice e combattente di Donna Vita Libertà, ha raccontato (con la traduzione dell’attivista Rayhane Tabrizi) cosa vuole dire essere oggi donna in Iran.

«Sono qui per parlare non di Iran ma del regime della repubblica islamica, dove un padre ha il diritto di uccidere una figlia senza rischiare di essere giustiziato, mentre se una madre uccide un figlio maschio lo è», ha esordito, dopo che è stato trasmesso un breve video sul suo pestaggio da parte della polizia morale. «Ci eravamo incontrati in occasione del 40° giorno dall’uccisione di una ragazza del nostro movimento Donna Vita Libertà davanti a un cimitero, perché sapevamo che se fossimo state uccise, saremmo state sepolte nello stesso posto. Era pieno di poliziotti in divisa e in borghese, c’era il caos totale. Hanno cominciato a sparare e mi hanno colpito 147 proiettili di piombo, una delle quali mi è finita nell’occhio e un ufficiale continuava a minacciare di uccidermi. Il mio corpo non reagiva più e pensando fossi morta mi hanno caricata su una macchina. Quando sono riuscita ho detto che ero viva e di avvisare la mia famiglia in modo che potessi salutarla prima di morire. Ma in quel momento con la faccia insanguinata la mano gonfia e la pancia piena di palline la mia forza si è moltiplicata».

Poi il ricongiungimento con la famiglia, le cure da un medico («non potevo andare all’ospedale perché arrestavano») e poi la fuga. «Avrei voluto rimanere nel mio paese, combattere fino al giorno in cui tutte queste persone fossero davanti al tribunale per rispondere, ma non ho potere né armi. Oggi sono qui con l’obiettivo che le persone che escono da qui siano coscienti e comprendano il nostro dolore. Così diventate nostri alleati e potete aiutarci».

(foto ©Lorenzo Ceva Valla)

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