La nascita di una nuova libertà – Parashat Ki Tissa

 In Dall'Ufficio Rabbinico, Parashà della Settimana

di Rabbino Lord Jonathan Sacks zt”l

tradotto ed adattato da David Malamut

Ki Tissa inizia con i dettagli finali sul Santuario, tra cui una raccolta di denaro dal popolo che doveva servire come censimento. La parasha poi si trasforma in un dramma intenso con una delle narrazioni più avvincenti della storia ebraica. Il popolo, in preda al panico per l’assenza di Mosè (che è sulla montagna, a ricevere le tavole da Dio), costruisce un vitello d’oro e danza davanti ad esso. Dio dice a Mosè di scendere. Mosè lo fa e, nella sua rabbia, rompe le tavole. Censura il popolo, poi torna sulla montagna per implorare Dio di perdonarli. Alla fine Dio lo fa e Mosè torna con una seconda serie di tavole, ignaro che il suo volto è ora raggiante.

Assistere alla nascita di una nuova idea è un po’ come guardare la nascita di una galassia attraverso il telescopio spaziale Hubble. Possiamo assistere proprio a un evento del genere in un famoso commento rabbinico a un versetto chiave della Parsha di questa settimana.

Il modo per vederlo è porsi la domanda: qual è la parola ebraica per libertà? Istintivamente, rispondiamo cherut. Dopo tutto, diciamo che Dio ci ha portato me-avdut le-cherut, “dalla schiavitù alla libertà“.

Chiamiamo Pesach, la festa della libertà, “Zeman Cheruteinu“. Quindi è sorprendente scoprire che nemmeno una volta la Torah, o persino il Tanach (Pentateuco) nel suo insieme, usa la parola cherut nel senso di libertà, e solo una volta usa la parola, o almeno la parola correlata charut, in qualsiasi senso.

Ci sono due parole bibliche per libertà. Una è chofshi/chofesh, usata in relazione alla liberazione degli schiavi (come in Esodo 21, 2). Questa è anche la parola usata nell’inno nazionale di Israele, Hatikvah, che parla della “speranza di duemila anni di essere un popolo libero [am chofshi] nella nostra terra“.

L’altro è dror, usato in relazione all’anno del Giubileo, come inciso sulla Liberty Bell a Philadelphia:

<<…e proclamerete franchigia nel paese a tutt’i suoi abitanti. >> (Levitico 25, 10)

La stessa parola appare nelle grandi parole di Isaia, “per fasciare i cuori spezzati, per proclamare la libertà [dror] per i prigionieri.” (Isaia 61, 1)

Tuttavia, i Saggi coniarono una nuova parola. Ecco il passaggio in cui compare:

<<Le Tavole erano opera di Dio, e la scrittura era la scrittura di Dio, incisa [charut] sulle Tavole” (Esodo 32, 16). Non leggere charut, “incisa”, ma cherut, “libertà”, perché l’unica persona che è veramente libera è quella che è occupata nello studio della Torah.>> (Avot 6, 2)

Il riferimento è alle prime Tavole date da Dio a Mosè appena prima del peccato del Vitello d’Oro. Questa è l’unica apparizione nel Tanach della radice chrt ח-ר-ת(con una tav ת), ma una parola correlata, ch-r-t ח-ר-ט(con una tet ט) appare nella storia stessa del Vitello d’Oro, quando la Torah ci dice che Aaronne lo plasmò con un cheret, uno “strumento per incidere”. I maghi egiziani sono chiamati chartumim, che potrebbe significare “incisori di geroglifici“. Quindi come ha fatto una parola che significa “inciso” a significare “libertà”?

Oltre a ciò, perché era necessario un nuovo termine per libertà? Se la lingua ebraica ne aveva già due, perché era necessario un terzo? E perché deriva da questa parola, che significava “inciso“? Per rispondere a queste domande, impegniamoci in un po’ di archeologia concettuale.

Chofesh/chofshi è ciò che uno schiavo diventa quando diventa libero. Ciò significa che può fare ciò che vuole. Non c’è nessuno che gli dia ordini. La parola è correlata a chafetz, “desiderio” e chapess, “cercare“. Chofesh è la libertà di perseguire i propri desideri. È ciò che i filosofi chiamano libertà negativa. Significa l’assenza di coercizione.

Chofesh va bene per la libertà individuale. Ma non costituisce la libertà collettiva. Una società in cui tutti fossero liberi di fare ciò che volevano non sarebbe una società libera. Sarebbe, nella migliore delle ipotesi, come la società che abbiamo visto nelle strade di Londra e Manchester nell’estate del 2011, con persone che rompevano vetrine, saccheggiavano e aggredivano estranei.

Più probabilmente sarebbe ciò che sono oggi gli stati falliti: una società senza stato di diritto, senza un governo efficace, una polizia onesta o tribunali indipendenti. Sarebbe ciò che Hobbes chiamava “la guerra di ogni uomo contro ogni uomo” in cui la vita sarebbe “sgradevole, brutale e breve“. Qualcosa del genere è menzionato nell’ultimo versetto del Libro dei Giudici: “In quei giorni non c’era re in Israele; ognuno faceva ciò che era giusto ai suoi occhi“.

Una società libera ha bisogno della legge. Ma la legge è un vincolo alla libertà. Mi proibisce di fare qualcosa che potrei desiderare di fare. Come possiamo allora conciliare legge e libertà? Questa è una domanda al centro dell’ebraismo, che è una religione sia di legge che di libertà.

Per rispondere a questa domanda, i Saggi fecero uno straordinario salto di immaginazione. Considerate due forme di scrittura nei tempi antichi. Una è usare inchiostro su pergamena, un’altra è incidere parole su pietra. C’è una netta differenza tra questi due metodi. L’inchiostro e la pergamena sono due materiali diversi. L’inchiostro è esterno alla pergamena. È sovrapposto ad essa e non diventa parte della pergamena. Rimane distinto e quindi può essere cancellato e rimosso. Ma un’incisione non usa una nuova sostanza. È ricavata dalla pietra stessa. Diventa parte di essa e non può essere facilmente cancellata.

Ora considerate questi due modi di scrivere come metafore della legge. Ci sono leggi che sono imposte esternamente. Le persone le osservano perché temono che se non lo fanno, saranno catturate e punite. Ma se non c’è alcuna possibilità che vengano catturate, infrangono le regole, perché la legge non ha cambiato i loro desideri. Quel tipo di legge, imposta a noi come l’inchiostro sulla pergamena, è una limitazione della libertà.

Ma può esserci un diverso tipo di società in cui le persone rispettano la legge non perché temono di essere catturate e punite, ma perché conoscono la legge, l’hanno studiata, la comprendono, l’hanno interiorizzata ed è diventata parte di ciò che sono. Non desiderano più fare ciò che la legge proibisce perché ora sanno che è sbagliato e lottano contro le loro proprie tentazioni e desideri. Una legge del genere non ha bisogno della polizia perché non si basa sulla forza esterna ma sulla trasformazione interna attraverso il processo di istruzione. La legge è come una scrittura incisa nella pietra.

Immagina una società del genere. Puoi camminare per strada senza paura. Non hai bisogno di muri alti e allarmi per proteggere la tua casa. Puoi lasciare la macchina aperta e aspettarti di trovarla lì quando torni. Le persone rispettano la legge perché hanno a cuore il bene comune. Questa è una società libera.

Ora immagina l’altro tipo di società, che ha bisogno di una massiccia presenza della polizia, sorveglianza costante, programmi di sorveglianza di quartiere, dispositivi e personale di sicurezza, e le persone hanno ancora paura di camminare da sole di notte. Le persone pensano di essere libere perché è stato insegnato loro che tutta la moralità è relativa e che puoi fare ciò che vuoi finché non fai del male agli altri. Nessuno che abbia visto una società del genere può seriamente credere che sia libera. Gli individui possono essere liberi, ma la società nel suo insieme deve stare costantemente in guardia perché è costantemente a rischio. È una società con poca fiducia e molta paura.

Da qui il brillante nuovo concetto emerso nell’ebraismo rabbinico: cherut, la libertà che arriva a una società, di cui gli ebrei furono chiamati a essere pionieri, dove le persone non solo conoscono la legge, ma la studiano costantemente finché non è incisa nei loro cuori come i comandamenti erano un tempo incisi sulla pietra. Questo è ciò che i Saggi intendevano quando dicevano: “Non leggere charut, “incisa”, ma cherut, “libertà”, perché l’unica persona che è veramente libera è quella che è occupata nello studio della Torah“. In una tale società osservi la legge perché vuoi farlo, perché avendo studiato la legge capisci perché è lì. In una tale società non c’è conflitto tra legge e libertà.

Da dove hanno preso questa idea i Saggi? Credo che provenisse dalla loro profonda comprensione di ciò che Geremia intendeva quando parlava del patto rinnovato che sarebbe entrato in vigore una volta che gli ebrei fossero tornati dopo l’esilio babilonese. “Il patto rinnovato”, disse, “non sarà come il patto che ho fatto con i loro padri quando li presi per mano per condurli fuori dall’Egitto … Questo è il patto che farò con la casa d’Israele dopo quel tempo, dichiara il Signore, metterò la mia legge nella loro mente e la scriverò nei loro cuori … ” (Geremia 31, 31-33)

Molti secoli dopo Giuseppe Flavio scrisse che questo era effettivamente accaduto.

Se qualcuno della nostra nazione venisse interrogato sulle nostre leggi, le ripeterebbe con la stessa prontezza con cui ripeterebbe il suo stesso nome. Il risultato della nostra approfondita istruzione sulle nostre leggi fin dall’alba dell’intelligenza è che esse sono, per così dire, incise nelle nostre anime.

Ancora oggi, molti non comprendono appieno questa idea rivoluzionaria. Le persone pensano ancora che una società libera possa essere realizzata semplicemente tramite elezioni democratiche e strutture politiche. Ma la democrazia, come disse Alexis de Tocqueville molto tempo fa, potrebbe semplicemente rivelarsi “la tirannia della maggioranza“.

La libertà nasce nella scuola e nella casa di studio. Questa è la libertà ancora sperimentata dalle persone che, più di ogni altro, hanno dedicato il loro tempo allo studio, alla comprensione e all’interiorizzazione della legge. Cos’è il popolo ebraico? Una nazione di giuristi costituzionalisti. Perché? Perché solo quando la legge è incisa nelle nostre anime possiamo raggiungere la libertà collettiva senza sacrificare la libertà individuale. Questo è cherut, il grande contributo dell’ebraismo all’idea e alla pratica della libertà.

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