La lenta fine della schiavitù – Parashat Mishpatim
di Rabbino Lord Jonathan Sacks zt”l
tradotto ed adattato da David Malamut
Nella Parsha di Mishpatim assistiamo ad uno dei grandi stilemi della Torah, a un elemento caratterizzante inconfutabile della Torah, ossia il suo passaggio dalla narrativa alla legge. Finora il libro dell’Esodo è stato principalmente narrativo: la storia della schiavitù degli Israeliti e del loro viaggio verso la libertà. Ora arriva una legislazione dettagliata, la “costituzione della libertà”.
Ciò non è casuale ma essenziale. Nel giudaismo il diritto nasce dall’esperienza storica del popolo. L’Egitto era la scuola dell’anima del popolo ebraico; la memoria era il suo seminario continuo sull’arte e il mestiere della libertà. Ha insegnato loro cosa significava essere dalla parte sbagliata del potere. “…voi già conoscete l’animo del forestiere…”, recita una frase risonante nella Parsha di questa settimana (Esodo 23, 9). Gli ebrei erano il popolo a cui era stato comandato di non dimenticare mai il sapore amaro della schiavitù in modo da non dare mai per scontata la libertà. Coloro che lo fanno, alla fine lo perdono.
Da nessuna parte questo è più chiaro che nell’apertura della Parsha di oggi. Abbiamo letto dell’esperienza storica della schiavitù degli Israeliti. Quindi la legislazione sociale di Mishpatim inizia con la schiavitù. Ciò che affascina non è solo ciò che dice ma anche ciò che non dice.
Non dice: abolire la schiavitù. Sicuramente avrebbe dovuto farlo. Non è questo il punto centrale della storia finora? I fratelli di Giuseppe lo vendono come schiavo. Lui, nei panni del viceré egiziano Tzofenat Paneach, li minaccia di schiavitù. Generazioni dopo, quando sorge un faraone che “non conosceva Giuseppe”, l’intero popolo israelita diventa schiavo dell’Egitto. La schiavitù, come la vendetta, è un circolo vizioso che non ha fine naturale. Perché allora non dargli una fine soprannaturale? Perché Dio non ha detto: “Non ci sarà più schiavitù”?
La Torah ci ha già dato una risposta implicita. Il cambiamento è possibile nella natura umana, ma richiede tempo: tempo su vasta scala, secoli, persino millenni. Non c’è dubbio che, secondo il sistema di valori della Torah, l’esercizio del potere da parte di una persona su un’altra, senza il suo consenso, costituisce un attacco fondamentale alla dignità umana. Ciò non vale solo per il rapporto tra padrone e schiavo. È vero, secondo molti commentatori ebrei classici, il rapporto tra re e sudditi, governanti e governati. Secondo i Saggi ciò vale anche per il rapporto tra Dio e gli esseri umani. Il Talmud afferma che se Dio davvero costringesse il popolo ebraico ad accettare la Torah “sospendendo la montagna sopra le loro teste” (Shabbat 88a), ciò costituirebbe un’obiezione ai termini stessi del patto stesso. Siamo avadim, servitori di Dio, solo perché i nostri antenati hanno scelto liberamente di esserlo (vedere Giosuè 24, dove Giosuè offre al popolo la libertà, se lo desiderano, di allontanarsi dall’alleanza in quel momento).
Quindi la schiavitù deve essere abolita, ma è un principio fondamentale del rapporto di Dio con noi che Egli non ci obblighi a cambiare più velocemente di quanto sia possibile per nostra libera volontà. Quindi, Mishpatim non abolisce la schiavitù, ma mette in moto una serie di leggi fondamentali che porteranno le persone, anche se con i propri ritmi, ad abolirla di propria iniziativa. Ecco le leggi:
<<Quando tu faccia acquisto d’un servo ebreo, egli servirà sei anni, e nel settimo uscirà in libertà senza pagar nulla. Se sarà venuto solo, solo uscirà; se sarà ammogliato, uscirà sua moglie con lui. Se il suo padrone gli darà una femmina, e questa gli procreerà figli o figlie, la femmina e i suoi nati saranno del suo padrone, ed egli uscirà solo. Se però il servo dirà: Amo il mio padrone, la mia donna, e i miei figli;non voglio uscire in libertà. Il suo padrone lo presenterà al tribunale, e fattolo accostare all’uscio, o allo stipite, il padrone gli forerà l’orecchia colla lesina, e quegli lo servirà per sempre.>> (Esodo 21, 2-6)
Cosa viene fatto in queste leggi? Innanzitutto, sta avvenendo un cambiamento fondamentale nella natura della schiavitù. Non è più uno status permanente; è una condizione temporanea. Uno schiavo ebreo torna libero dopo sette anni. Lui o lei lo sa. La libertà attende lo schiavo non per capriccio del padrone ma per comando divino. Quando sai che entro un tempo prestabilito sarai libero, potresti essere uno schiavo nel corpo ma nella tua mente sei un essere umano libero che ha temporaneamente perso la libertà. Questo di per sé è rivoluzionario.
Questo da solo, però, non è bastato. Sei anni sono tanti. Da qui l’istituzione dello Shabbat, ordinato affinché un giorno su sette uno schiavo potesse respirare aria libera: nessuno poteva comandargli di lavorare:
<<Sei giorni lavorerai, e farai ogni tua opera. Ma il giorno settimo è Sabbato, ad onore del Signore tuo Dio: (in esso) non farai alcun lavoro, né tu, né il tuo figlio, né la tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bue, né il tuo asino, né alcun tuo animale, né il pellegrino che sta nelle tue città; in guisa che il tuo schiavo e la tua schiava riposino come tu. E ti ricorderai che fosti schiavo nella terra d’Egitto, ed il Signore tuo Dio ti trasse di là con mano potente e con braccio steso: perciò il Signore tuo Dio ti comandò di fare il giorno di Sabbato.>> (Deuteronomio 5, 12-14)
Ma la Torah è profondamente consapevole che non tutti gli schiavi vogliono la libertà. Anche questo emerge dalla storia israelita. Più di una volta nel deserto gli israeliti vollero tornare in Egitto. Dissero: “Ci tornano alla memoria i pesci che
mangiavamo in Egitto, senza spesa; i cocomeri [angurie], i poponi [melloni], ed il porro, e le cipolle, e gli agli.” (Numeri 11, 5).
Come sottolinea Rashi, la frase “senza alcun costo” [khinam] non può essere intesa alla lettera. Lo hanno pagato con il loro lavoro e con la loro vita. “A costo zero” significa “libero da mitzvot”, da comandi, obblighi, doveri. La libertà comporta un prezzo più alto, vale a dire la responsabilità morale. Molte persone hanno mostrato quella che Erich Fromm chiamava “paura della libertà”. Rousseau parlava di “costringere le persone a essere libere”, come una visione che col tempo portò al regno del terrore che seguì la Rivoluzione francese.
La Torah non obbliga le persone a essere libere, ma insiste su un rituale di stigmatizzazione. Se uno schiavo rifiuta di liberarsi, il suo padrone “lo condurrà alla porta o allo stipite e gli forerà l’orecchio con un lesino”. Rashì spiega:
<<Perché si è scelto di forare l’orecchio e non tutte le altre membra del corpo? Disse Rabbi Yochanan ben Zakkai: …L’orecchio che udì sul monte Sinai: “Poiché per me sono i figli d’Israele servitori” e lui, tuttavia, andò avanti e si acquistò un maestro, dovrebbe [avere il suo orecchio] forato! Rabbi Shimon ha esposto questo verso in modo meraviglioso: Perché la porta e lo stipite sono diversi dagli altri oggetti della casa? Dio, in effetti, disse: “La porta e lo stipite furono testimoni in Egitto quando io passai sopra l’architrave e i due stipiti, e dissi: ‘Poiché per Me sono i figli d’Israele servitori’, sono miei servitori, non servitori di servi, e costui andò avanti e si procurò un padrone, gli [si farà forare l’orecchio] davanti a loro”.>>
Uno schiavo può restare tale, ma non senza ricordargli che questo non è ciò che Dio vuole per il Suo popolo. Il risultato di queste leggi fu quello di creare una dinamica che alla fine avrebbe portato all’abolizione della schiavitù, in un momento di libera scelta dell’uomo.
E così è successo. I quaccheri, i metodisti e gli evangelici, tra cui il più famoso William Wilberforce, che guidarono la campagna in Gran Bretagna per abolire il commercio di schiavi ed erano guidati da convinzioni religiose, ispirate anche dal racconto biblico dell’Esodo, e dalla sfida di Isaia «per bandir libertà a quelli che sono in cattività, ed apritura di carcere a’ prigioni» (Isaia 61,1).
La schiavitù negli Stati Uniti fu abolita solo dopo una guerra civile, e c’era chi citava la Bibbia in difesa della schiavitù. Come disse Abraham Lincoln nel suo discorso del secondo insediamento:
“Entrambi leggono la stessa Bibbia e pregano lo stesso Dio, e ciascuno invoca il Suo aiuto contro l’altro. Può sembrare strano che qualche uomo osi chiedere l’aiuto di un Dio giusto per strappare il proprio pane dal sudore dei volti altrui, ma non giudichiamo, per non essere giudicati.”
Eppure, la schiavitù è stata abolita negli Stati Uniti, anche grazie all’affermazione contenuta nella Dichiarazione di Indipendenza che “tutti gli uomini sono creati uguali” e sono dotati dal loro Creatore di diritti inalienabili, tra cui “la vita, la libertà e la ricerca della felicità”. Thomas Jefferson, uno de padri fondatori degli Stati Uniti e che scrisse quelle parole, era lui stesso un proprietario di schiavi. Tuttavia, il potere latente degli ideali è tale che alla fine le persone si rendono conto che, insistendo sul proprio diritto alla libertà e alla dignità e negandolo agli altri, vivono una contraddizione. È allora che avviene il cambiamento, e per questo che avvenga ci vuole tempo.
Se la storia ci insegna qualcosa è che Dio ha pazienza, anche se spesso è messa a dura prova. Voleva che la schiavitù fosse abolita, ma voleva che ciò fosse fatto da esseri umani liberi che arrivassero a vedere di propria iniziativa il male che è e il male che fa. Il Dio della storia, che ci ha insegnato a studiare la storia, aveva fede che alla fine avremmo imparato la lezione della storia stessa: che la libertà è indivisibile. Dobbiamo concedere la libertà agli altri se la cerchiamo veramente per noi stessi.