La fine dell’oscurità – Parashat Miketz 5785 (Shabbat Channuka)

 In Dall'Ufficio Rabbinico, Parashà della Settimana

di Rav Shmuel Rabinowitz, Rabbino del Kotel e luoghi sacri in Israele

tradotto ed adattato da David Malamut

La parasha di questa settimana, parasha di Miketz, inizia a svelare la storia della discesa di Giacobbe e dei suoi figli in Egitto e dell’eventuale ricongiungimento della famiglia. Il nome di questa porzione della Torah avrebbe potuto essere qualsiasi cosa diversa da “Miketz”, che denota semplicemente il passare del tempo dai sogni del coppiere e del fornaio del Faraone, raccontati nella parasha precedente.

Forse è questo il motivo per cui il Midrash Rabbah (un commento alla Torah compilato dai saggi dell’era talmudica nella Terra d’Israele intorno al IV-V secolo) apre la nostra parasha confrontando due versi che contengono la parola “ketz” (fine):

<<Ora, in capo a due anni interi…>> (Genesi 41, 1) וַיְהִ֕י מִקֵּ֖ץ שְׁנָתַ֣יִם יָמִ֑ים

<<Egli [Iddio] pone limite all’oscurità…>> (Giobbe 28, 3)   קֵ֤ץ ׀ שָׂ֤ם לַחֹ֗שֶׁךְ

Secondo il Midrash, il punto principale del primo verso non è il dettaglio cronologico dei due anni trascorsi dai sogni precedenti. Invece, il focus sta nella frase “è successo alla fine (miketz מִקֵּ֖ץ)”. Il Midrash interpreta:

Egli pone fine alle tenebre; Stabilisce un limite di tempo per quanto tempo il mondo rimarrà nell’oscurità”. Allo stesso modo, “Egli pone fine alle tenebre; Determina per quanti anni Giuseppe rimarrà nell’oscurità della prigione. Giunto il momento, il Faraone fece un sogno…

Come ogni notte cede il posto all’alba, così anche ogni periodo di difficoltà giunge al termine. Giuseppe, che secondo ogni naturale ragionamento avrebbe dovuto languire nella fossa per il resto dei suoi giorni, improvvisamente vide spuntare l’alba. Giunto il momento prestabilito, tutto cambiò in meglio, come afferma la Torah:

<< Faraone mandò a chiamare Giuseppe, il quale fu tostamente tratto dalla fossa, e si rase, e si cangiò di vestiti, e andò da Faraone.>> (Genesi 41, 14)

Perché tutta questa fretta? Perché era giunto il momento. Ogni sofferenza ha i suoi limiti e tutto è misurato e preciso.

Rabbeinu Bechaye (un commentatore, cabalista e saggio dell’era dei Rishonim, vissuto a Saragozza, Spagna, 1255–1340) scrisse:

E lo tirarono fuori dalla fossa. I nostri saggi interpretarono: dall’angoscia al sollievo, dalle tenebre alla luce… Riguardo a lui, il re Salomone scrisse: ” l’uno è uscito dalla prigione per salire sul trono ” (Ecclesiaste 4, 14), intendendo che direttamente dalla prigione salì al regno.

Questa parasha della Torah, che racconta l’inizio dell’esilio di Giacobbe e dei suoi figli, segnato da una intensa sofferenza della schiavitù egiziana, è giustamente chiamata “Miketz”. Questo ci insegna che ogni esilio, per quanto duro, avrà la sua fine. La nostra fede e speranza nella “fine” che arriva dopo la sofferenza sono le fonti della nostra forza nei momenti difficili.

Quanto sono belle le parole dello Sforno (Rabbi Ovadia Sforno, commentatore, autore, medico e filosofo italiano, circa 1500) sul versetto:

<<“E lo trarranno fuori dalla fossa”: questo riflette la natura di tutte le salvezze divine, che avvengono in un momento…>>

Un’intera nazione si alza e desidera con il fiato sospeso la fine delle sofferenze degli ostaggi tenuti nelle mani del nemico, la conclusione di una guerra che ha inflitto grande dolore e il sollievo per i nostri fratelli e sorelle ovunque si trovino.

Nella parasha di Miketz, troviamo un testo di speranza e ottimismo, noi chiediamo a Dio di porre fine all’oscurità che avvolge i nostri fratelli e sorelle:

<<Quelli adunque che dal Signore saranno stati riscattati ritorneranno, e verranno in Sion con canto; e allegrezza eterna sarà sopra il capo loro…>> (Isaia 51, 11)

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