Il prossimo capitolo –  Parashat Chayei Sarah 5772, 5785

 In Parashà della Settimana

di Rabbino Lord Jonathan Sacks zt”l

tradotto ed adattato da David Malamut

Una delle caratteristiche più sorprendenti dell’ebraismo rispetto, ad esempio, al cristianesimo o all’islam, è che è impossibile rispondere alla domanda: chi è il personaggio centrale del dramma della fede? In entrambi gli altri monoteismi abramitici la risposta è ovvia. Nel giudaismo è tutt’altro. È Abramo, il fondatore della famiglia dell’alleanza? È Giacobbe che ha dato il nome Israele al nostro popolo e alla sua terra? Mosè, il liberatore e legislatore? Davide, il più grande dei re d’Israele? Salomone, il costruttore del Tempio e l’autore della sua letteratura di saggezza? Isaia, il poeta laureato della speranza? E tra le donne c’è una simile ricchezza e diversità.

È come se la nascita del monoteismo, l’unità senza compromessi delle forze creative, rivelatrici e redentrici all’opera nell’universo, avesse creato lo spazio affinché emergesse la piena diversità della condizione umana. Quindi Abramo, la cui vita volge al termine nella Parsha di questa settimana, è un individuo piuttosto che un archetipo. Né Isacco né Giacobbe, né nessun altro del resto, sono proprio come lui. E ciò che ci colpisce è l’assoluta serenità della fine della sua vita. In una serie di passaggi, lo vediamo, saggio e lungimirante, prendersi cura del futuro, risolvendo i problemi di una vita di promesse differite.

Innanzitutto, acquista per la prima volta un appezzamento di terreno nella terra che, gli è stato assicurato, un giorno apparterrà ai suoi discendenti. Poi, senza lasciare nulla al caso, trova una moglie per Isacco, il figlio che sa di essere l’erede del patto.

Sorprendentemente, rimane pieno di vigore e prende una nuova moglie, dalla quale ha sei figli. Quindi, per evitare ogni possibile disputa sulla successione o sull’eredità, fa a tutti e sei i doni e poi li manda via prima di morire. Infine, leggiamo della sua scomparsa, la descrizione più serena della morte nella Torah:

<<Abramo venne meno e morì in vecchiaja felice, attempato e contento; e si accolse alla sua gente [in cielo].>> (Genesi 25, 8)

Si è quasi tentati di dimenticare quanti dolori ha patito nella sua vita: la straziante separazione dalla “casa di suo padre”, i conflitti e le irritazioni di suo nipote Lot, le due occasioni in cui ha dovuto lasciare il paese a causa della carestia, entrambi gli fanno temere per la sua vita; la lunga attesa per un figlio, il conflitto tra Sara e Agar e la doppia prova di dover mandare via Ismaele e apparentemente quasi perdere anche Isacco.

In qualche modo sentiamo in Abramo la bellezza e la potenza di una fede che ripone la sua fiducia in Dio così totalmente che non c’è né apprensione né paura. Abramo non è privo di emozioni. Lo percepiamo nella sua angoscia per lo spostamento di Ismaele e nella sua protesta contro l’apparente ingiustizia della distruzione di Sodoma. Ma si mette nelle mani di Dio. Fa ciò che gli spetta e confida che Dio faccia ciò che dice che farà. C’è qualcosa di sublime nella sua fede.

Eppure, la Torah anche nella Parsha di questa settimana, dopo la prova suprema della legatura di Isacco, ci fa intravedere la continua sfida alla sua fede. Sara è morta. Abramo non ha nessun posto dove seppellirla. Di volta in volta, Dio gli ha promesso la terra: appena arrivato in Canaan leggiamo: «Il Signore apparve ad Abramo, e (gli)disse: Alla tua discendenza darò questo paese. Ed egli fabbricò ivi un altare al Signore che gli era apparso.» (Genesi 12, 7).

Poi nel capitolo successivo, dopo essersi separato da Lot, Dio dice: “Or via, spazia per lo paese, per largo e per lungo; perocchè a te io lo darò.” (Genesi 13, 17). E ancora due capitoli dopo: «E gli disse: Son io il Signore, che ti trassi da Ur-Casdìm, per darti questo paese, da possederlo.» (Genesi 15, 7).

E così via, sette volte in tutto. Eppure, ora Abramo non possiede nemmeno un centimetro quadrato in cui seppellire sua moglie. Ciò pone le basi per uno degli incontri più complessi di Bereishit, in cui Abramo negozia il diritto di acquistare un campo e una grotta.

È impossibile in breve tempo rendere giustizia alle sfumature di questo affascinante scambio. Ecco come si apre:

<<Levatosi quindi Abramo d’appresso al suo morto, parlò agli Hhittei, con dire: Io sono presso di voi un pellegrino ed avventiccio: accordatemi presso di voi una possessione ad uso di sepoltura, ond’io mi tolga d’innanzi e seppellisca il mio morto. Gli Hhittei risposero ad Abramo, con dirgli: Ascoltaci, Signore! Tu sei tra noi un principe di Dio [cioè veneratissimo], nel migliore dei nostri cimiterj seppellisci il tuo morto: alcuno di noi non ti negherà il suo cimiterio per seppellirvi il tuo morto.>> (Genesi 23, 3-6)

Abramo segnala la sua relativa impotenza. Potrebbe essere ricco. Ha grandi greggi e mandrie. Eppure, gli manca il diritto legale di possedere la terra. È “un forestiero e un estraneo”. Gli Ittiti, con squisita diplomazia, rispondono con apparente generosità ma deviano la sua richiesta. Sicuramente, dicono, seppellisci i tuoi morti, ma per questo non è necessario possedere la terra. Ti permetteremo di seppellirla, ma la terra resterà nostra. Anche allora non si impegnano. Usano una doppia negazione: “Nessuno di noi rifiuterà. . .” È l’inizio di un elaborato minuetto. Abraham, con una gentilezza pari alla loro, rifiuta di lasciarsi distrarre:

<<Abramo tosto si prostrò innanzi alla gente del paese, (cioè) agli Hhittei. E parlò loro, con dire: Se è vostra volontà di prestarvi perché il mio morto mi venga tolto d’innanzi e seppellito,ascoltatemi, e pregate per me Efròn figlio di Sòhhar; Perché mi dia la grotta della Machpelà che gli appartiene, situata nell’estremità del suo campo. Me la dia (cioè) in mezzo a voi, per l’intero valore, in possessione ad uso di sepoltura.>> (Genesi 23, 7-9)

Prende il loro vago impegno e gli dà una definizione netta. Se sei d’accordo che io possa seppellire i miei morti, allora devi essere d’accordo che io possa acquistare la terra in cui farlo. E se dici che nessuno mi rifiuterà, allora sicuramente non avrai alcuna obiezione a persuadere l’uomo che possiede il campo che desidero acquistare.

Efron l’Hittita era seduto in mezzo al suo popolo e rispose ad Abramo davanti a tutti gli Hittiti che erano venuti alla porta della sua città. “No, mio ​​​​signore“, disse. “Ascoltami; Ti do il campo e ti do la caverna che è in esso. Te lo dono alla presenza del mio popolo. Seppellisci i tuoi morti.

Ancora una volta, un’elaborata dimostrazione di generosità che non è niente del genere. Per tre volte Efron disse: “Te lo do”, eppure non intendeva questo, e Abramo sapeva che non lo intendeva.

Di nuovo Abramo si inchinò davanti al popolo del paese e disse a Efron davanti a loro: “Ascoltami, se vuoi. Pagherò il prezzo del campo. Accettalo da me così potrò seppellire lì i miei morti.” Efron rispose ad Abramo: «Ascoltami, mio ​​signore; la terra vale quattrocento sicli d’argento, ma che cosa c’è tra me e te? Seppellisci i tuoi morti.»

Lungi dallo svendere il campo, Efron insiste su un prezzo enormemente gonfiato, anche se sembra liquidarlo come una sciocchezza: “Che cosa c’è tra me e te?” Abramo paga subito il prezzo e il campo è finalmente suo.

Ciò che vediamo in questo passaggio breve ma ricco di sfumature è la pura vulnerabilità di Abramo. Nonostante tutto ciò che i cittadini locali sembrano tributargli, è completamente alla loro mercé. Deve usare tutta la sua abilità di negoziatore e alla fine deve pagare una grossa somma per un piccolo pezzo di terra. Sembra tutto incredibilmente lontano dalla visione che Dio ha dipinto per lui dell’intero paese che un giorno diventerà una casa per i suoi discendenti. Eppure, Abramo è contento. Il capitolo successivo inizia con le parole:

<<Abramo era vecchio, avanzato in età, ed il Signore aveva benedetto Abramo in ogni cosa.>> (Genesi 24, 1)

Questa è la fede di un Abramo. L’uomo ha promesso tanti figli quanti ne hanno le stelle del cielo per continuare l’alleanza. L’uomo promesso, la terra “dal fiume d’Egitto al grande fiume, l’Eufrate” (Genesi 15, 18), ha acquisito un campo e una tomba. Ma questo basta. Il viaggio è iniziato. Abramo sa: “Non spetta a te portare a termine il compito”. Può morire contento.

Una frase traspare dalla trattativa con gli Ittiti. Riconoscono Abramo, il forestiero e lo straniero, come “un principe di Dio in mezzo a noi”. Il contrasto con Lot non potrebbe essere maggiore. Ricordiamo che Lot aveva abbandonato la sua particolarità. Aveva stabilito la sua casa a Sodoma. Le sue figlie avevano sposato uomini del posto. Egli “sedeva alla porta” (Genesi 19, 1) della città, lasciando intendere che fosse diventato uno degli anziani o dei giudici. Eppure, quando si oppose alle persone che intendevano abusare dei suoi visitatori, dissero: “Ed essi dissero: Va via! E soggiunsero: Vedi! uno che è venuto qui forastiere, osa pronunziare giudizi [censurando una misura da noi adottata per tener lontani i forastieri]. Ebbene, vogliam fare del male a te più che ad essi. Fecero grande insistenza contro l’uomò, Lot cioè, e si accostarono per romper l’uscio.” (Genesi 19, 9).

Lot, che si assimilò, fu disprezzato. Abramo, che lottò e pregò per i suoi vicini ma mantenne la distanza e la differenza, fu rispettato. Così è stato allora. Così è adesso. I non ebrei rispettano gli ebrei che rispettano l’ebraismo. I non ebrei mancano di rispetto agli ebrei che mancano di rispetto al giudaismo.

Così, alla fine della sua vita, vediamo Abramo, dignitoso, soddisfatto, sereno. Ci sono molti tipi di eroi nel giudaismo, ma pochi sono maestosi come l’uomo che per primo udì la chiamata di Dio e iniziò il viaggio che noi ancora continuiamo e seguiamo la sua strada.

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