Il coraggio della tenacia
Parashat Toldot 5779, 5785
di Rabbino Lord Jonathan Sacks zt”l
Tradotto ed adattato da David Malamut
C’è uno strano passaggio nella vita di Isacco, inquietante perché prefigura la storia ebraica. Come Abramo, Isacco si ritrova costretto dalla carestia a recarsi a Gherar, nella terra dei Filistei. Lì, come Abramo, sente che la sua vita potrebbe essere in pericolo perché è sposato con una bella donna. Teme di essere ucciso in modo che Rebecca possa essere portata nell’harem del re Avimelech. I coniugi si spacciano per fratello e sorella. Si scopre l’inganno, Avimelech si indigna, si danno spiegazioni, e il momento passa. Genesi 26 si legge quasi come una riproduzione di Genesi 20, una generazione dopo.
In entrambi i casi Avimelech promette sicurezza al patriarca. Ad Abramo disse: “La mia terra è davanti a te; abita dove vuoi» (Gen 20,15). Riguardo a Isacco, comanda: “Chiunque molesta quest’uomo o sua moglie sarà certamente messo a morte” (Gen. 26:11). Eppure in entrambi i casi ci sono conseguenze travagliate. In Genesi 21 leggiamo di una discussione sorta a proposito di un pozzo che Abramo aveva scavato: “Allora Abramo si lamentò con Avimelech a causa di un pozzo d’acqua che i servi di Avimelech avevano preso” (Gen. 21:25). I due uomini stipulano un trattato. Ma, come ora scopriamo, questo non bastò a evitare ulteriori difficoltà ai tempi di Isacco: Isacco piantò dei raccolti in quella terra e quello stesso anno raccolse il centuplo, perché il Signore lo benedisse. L’uomo divenne ricco e la sua ricchezza continuò a crescere finché non diventò molto ricco. Aveva così tante greggi, armenti e servi che i Filistei lo invidiavano. Così tutti i pozzi che i servi di suo padre avevano scavati al tempo di Abramo suo padre, i Filistei li tapparono riempiendoli di terra.
Allora Avimelech disse ad Isacco: «Allontanati da noi; sei diventato troppo potente per noi”.
Allora Isacco partì di là e si accampò nella valle di Gherar e lì si stabilì. Isacco riaprì i pozzi che erano stati scavati al tempo di suo padre Abramo, e che i Filistei avevano tappato dopo la morte di Abramo, e diede loro gli stessi nomi che aveva dato loro suo padre.
<<Isacco seminò in quel paese, e trovò in quello stesso anno il centuplo: tanto lo benedisse il Signore. L’uomo divenne grande [ricco]; e crebbe sempre più, in guisa che s’ingrandì oltremodo. Ebbe gregge di bestiame minuto, ed armenti bovini, e servitù numerosa; ed i Filistei n’ebbero gelosia. E quindi tutti i pozzi che scavati avevano i servi di suo padre in vita d’Abramo suo padre, i Filistei turarono, empiendoli di terra. Abimèlech disse ad Isacco: Vanne via da noi, perocchè sei potente più assai di noi. Isacco ritirossi di là, pose gli alloggiamenti nella pianura di Gheràr, ed abitò ivi. Isacco tornò a scavare i pozzi che (i suoi) avevano scavato in vita d’Abramo suo padre, i quali i Filistei avevano turati dopo la morte d’Abramo; ed impose loro gli stessi nomi che aveva loro imposto suo padre. I servi d’Isacco avendo scavato nella pianura, vi trovarono un pozzo d’acqua viva. I pastori di Gheràr contesero con quelli d’Isacco, con dire: L’acqua è nostra. Ed egli denominò il pozzo Essek, poichè avevano contrastato con lui. Scavarono un altro pozzo, e quelli contesero anche per esso; ed egli lo chiamò Sitnà. Trasferitosi di là, scavò un altro pozzo, intorno al quale non contesero; ed egli lo chiamò Rehhovòt, e disse: Sì,
ora il Signore vuol porci nell’agiatezza; e noi cresceremo [prospereremo] nel paese.>> (Genesi 26, 12-22)
Ci sono tre aspetti di questo passaggio meritevoli di attenta attenzione. Il primo è l’annuncio di quella che sarà poi la svolta decisiva nel destino degli Israeliti in Egitto. Avimelech dice: “sei diventato troppo potente per noi”. Secoli dopo, il faraone dice, all’inizio del libro dell’Esodo: “Questi disse al suo popolo: Ecco il popolo degl’Israeliti è [si va facendo]numeroso e forte più di noi. Or via studiamo contro di lui qualche stratagemma, per ch’ei non s’aumenti a segno, che accadendo qualche guerra possa unirsi ai nostri nemici, guerreggiare contro di noi, e poscia andarsene via dal paese.” (Esodo 1, 9–10). In entrambi i casi appare la stessa parola, atzum, “potere/potente, forte”. Il nostro passaggio segna la nascita di uno dei fenomeni umani più mortali, l’antisemitismo.
L’antisemitismo è per certi aspetti unico. Si tratta, secondo le parole di Robert Wistrich, dell’odio più duraturo del mondo. Nessun altro pregiudizio è durato così a lungo, mutato in modo così persistente, attraendo miti così demoniaci o avendo effetti così devastanti. Ma per altri aspetti non è un caso unico, e dobbiamo cercare di capirlo al meglio delle nostre possibilità.
Uno dei migliori libri sull’antisemitismo, in realtà, non parla affatto di antisemitismo, ma di fenomeni simili in altri contesti, “World on Fire” di Amy Chua. La sua tesi è che qualsiasi minoranza di notevole successo attirerà un’invidia che potrebbe trasformarsi in odio e provocare violenza. Tutte e tre le condizioni sono essenziali. Il gruppo odiato deve essere ben visibile, altrimenti non verrebbe individuato. Deve avere successo, altrimenti non sarebbe invidiato. E deve trattarsi di una minoranza, altrimenti non verrebbe attaccata.
Tutte e tre le condizioni erano presenti nel caso di Isacco. Si distingueva: non era un filisteo, era diverso dalla popolazione locale come un estraneo, uno straniero, qualcuno con una fede diversa. Aveva successo: i suoi raccolti erano centuplicati, i suoi greggi e le sue mandrie erano grandi e la gente lo invidiava. Ed era una minoranza: un’unica famiglia in mezzo alla popolazione locale. Erano presenti tutti gli ingredienti per distillare l’ostilità e l’odio.
C’è di più. Un’altra profonda visione delle condizioni che danno origine all’antisemitismo è stata fornita da Hannah Arendt nel suo libro Le origini del totalitarismo (la sezione è stata pubblicata separatamente come Anti-semitismo). L’ostilità verso gli ebrei diventa pericolosa, sosteneva, non quando gli ebrei sono forti, ma quando sono deboli.
Ciò è profondamente paradossale perché, a prima vista, è vero il contrario. Un unico filo va dalla reazione dei Filistei a quella di Isacco e del Faraone agli Israeliti, fino al mito inventato alla fine del XIX secolo, noto come I Protocolli dei Savi di Sion. Dice che gli ebrei sono potenti, troppo potenti. Controllano le risorse. Sono una minaccia. Devono essere rimossi.
Tuttavia, dice Arendt, l’antisemitismo non divenne pericoloso finché non persero il potere che avevano una volta:
<<Quando Hitler salì al potere, le banche tedesche erano già quasi Judenrein (ed era qui che gli ebrei avevano ricoperto posizioni chiave per più di cento anni) e l’ebraismo tedesco nel suo complesso, dopo una lunga e costante crescita in termini di status sociale e numero, era in declino così rapido che gli statistici ne predissero la scomparsa nel giro di pochi decenni.>>
Lo stesso è avvenuto in Francia:
<<L’affare Dreyfus esplose non sotto il Secondo Impero, quando l’ebraismo francese era all’apice della sua prosperità e influenza, ma sotto la Terza Repubblica, quando gli ebrei erano quasi scomparsi dalle posizioni importanti.>>
L’antisemitismo è un fenomeno complesso e proteiforme, mutevole perché gli antisemiti devono essere in grado di tenere insieme due convinzioni che sembrano contraddirsi tra loro: gli ebrei sono così potenti da dover essere temuti, e allo stesso tempo così impotenti da poter essere attaccati senza paura.
Sembrerebbe che nessuno possa essere così irrazionale da credere entrambe le cose contemporaneamente. Ma le emozioni non sono razionali, nonostante siano spesso razionalizzate, poiché esiste un’enorme differenza tra razionalità e razionalizzazione (il tentativo di dare una giustificazione razionale per credenze irrazionali).
Quindi, per esempio, nel ventunesimo secolo possiamo scoprire che (a) i media occidentali sono quasi universalmente ostili a Israele, e (b) persone altrimenti intelligenti affermano che i media sono controllati da ebrei che sostengono Israele: la stessa contraddizione interna di impotenza percepita e di potere attribuito.
La Arendt riassume la sua tesi in un’unica, significativa frase che collega la sua analisi a quella di Amy Chua. Ciò che dà origine all’antisemitismo è, dice, il fenomeno della “ricchezza senza potere”. Questa era precisamente la posizione di Isacco tra i Filistei.
C’è un secondo aspetto del nostro passaggio che ha avuto riverberi attraverso i secoli: la natura autodistruttiva dell’odio. I Filistei non chiesero a Isacco di condividere con loro la sua acqua. Non gli hanno chiesto di insegnare loro come lui (e suo padre) avevano scoperto una fonte d’acqua che loro – residenti del luogo – non lo avevano fatto. Non gli hanno nemmeno semplicemente chiesto di andare avanti. “Tararono” i pozzi, “riempiendoli di terra”. Questo atto li ha danneggiati più di quanto abbia danneggiato Isaac. Li derubava di una risorsa che, in ogni caso, sarebbe diventata loro, una volta che la carestia fosse finita e Isacco fosse tornato a casa.
Più che distruggere l’odiato, distrugge anche chi odia. Anche in questo caso Isacco e i Filistei furono un presagio, un prodigio di ciò che sarebbe poi accaduto agli Israeliti in Egitto. Al tempo della piaga delle locuste, leggiamo:
<< Ma i servi di Faraone gli dissero: Sino a quando deve costui esserci d’intoppo [cagionarci dei danni]? Lascia che quella gente vada a prestar culto al Signore suo Dio. Non comprendi tu ancora che (altrimenti) l’Egitto è perduto?>> (Esodo 10, 7)
In effetti dissero al faraone: potresti pensare di fare del male agli israeliti. In effetti ci stai facendo del male.
Sia l’amore che l’odio, ha detto Rabbi Shimon bar Yochai, “sconvolgono l’ordine naturale” (mekalkelet et hashurah). Sono irrazionali. Ci fanno fare cose che altrimenti non faremmo. Nel Medio Oriente di oggi, come spesso accadeva in passato, coloro che intendono distruggere i propri nemici finiscono per arrecare grave danno ai propri interessi, al proprio popolo.
In terzo luogo, la risposta di Isaac rimane quella corretta anche oggi. Sconfitto una volta, ci riprova. Ne scava un altro pozzo; anche questo produce opposizione. Quindi va avanti e riprova, e alla fine trova la pace.
È davvero appropriato che la città che oggi porta il nome che Isaac ha dato al sito di questo terzo pozzo, sia la sede dell’Istituto Weizmann di Scienze, della Facoltà di Agraria dell’Università Ebraica e dell’ospedale Kaplan, collegato alla Scuola di Medicina dell’Università Ebraica. Israel Belkind, uno dei fondatori dell’insediamento nel 1890, lo chiamò Rechovot proprio a causa del versetto nella nostra parsha: “Lo chiamò Rechovot, dicendo: Ora il Signore ci ha dato spazio e prospereremo nel paese“.
Isacco è il meno originale dei tre patriarchi. Nella sua vita manca il dramma di Abramo o le lotte di Giacobbe. Vediamo in questo passaggio che Isacco stesso non si sforzava di essere originale. Il testo è insolitamente enfatico su questo punto: Isacco “riaprì i pozzi che erano stati scavati al tempo di suo padre Abramo, che i Filistei avevano tappato dopo la morte di Abramo, e diede loro gli stessi nomi che aveva dato loro suo padre”. Normalmente ci sforziamo di individuarci differenziandoci dai nostri genitori. Facciamo le cose in modo diverso o, anche se non lo facciamo, diamo loro nomi diversi. Isaac non era così. Era contento di essere un anello della catena delle generazioni, fedele a ciò che suo padre aveva iniziato. Isacco rappresenta la fede della perseveranza, il coraggio della continuità. È stato il primo bambino ebreo e rappresenta la sfida più grande dell’essere un bambino ebreo: continuare il viaggio iniziato dai nostri antenati, invece di allontanarsene, concludendo così il viaggio prima di raggiungere la sua destinazione. E Isacco, grazie a quella fede, è riuscito a raggiungere l’obiettivo più sfuggente, vale a dire la pace, perché non si è mai arreso. Quando uno sforzo fallì, ricominciò da capo. Così è per tutti i grandi successi: una parte di originalità, nove parti di persistenza.
Trovo commovente che Isacco, che ha subito tante prove, dalla legatura quando era giovane, alla rivalità tra i suoi figli quando era vecchio e cieco, porti un nome che significa: “Riderà”. Forse il nome – datogli da Dio stesso prima della nascita di Isacco – significa ciò che intende il Salmo quando dice: “Quelli che seminano con lacrime, mieteranno con canti” (Salmi 126, 5). Fede significa coraggio di persistere nonostante tutti gli ostacoli, tutto il dolore, senza mai arrendersi, senza mai accettare la sconfitta. Perché alla fine, nonostante l’opposizione, l’invidia e l’odio, ci sono gli ampi spazi, Rechovot, e le risate, Isaac: la serenità della destinazione dopo le tempeste lungo il cammino.