«È un periodo orribile della storia di Israele e certamente c’è bisogno di una risposta adeguata da parte di tutti. Purtroppo riscontriamo un’informazione spesso distorta che riesce a deformare l’immagine di Israele come male assoluto e il governo in carica ancora di più. Eppure, è possibile fare qualcosa».
Con queste parole Giovan Battista Brunori, corrispondente della sede Rai di Gerusalemme, ha iniziato il suo intervento durante l’incontro online organizzato dall’ADEI-WIZO nazionale il 22 ottobre, intitolato ‘La notte di Israele. Un anno di guerra’.
A inaugurare la serata la presidente nazionale ADEI-WIZO Susanna Sciaky, che ha ribadito “il grande piacere di avere con noi un giornalista che ogni giorno mette a rischio la propria vita al servizio della verità, raccontando in modo obiettivo e incisivo le vicende della guerra e della società israeliana. Un servizio che svolge in modo ostinato e controcorrente rispetto alla disinformazione che ci raggiunge ogni giorno con una narrazione distorta ripetuta ossessivamente, che può diventare l’arma ideale nelle mani dell’antisemitismo”.
Raccontare Israele, prima e dopo il 7 ottobre
«Ho iniziato il mio servizio alla sede di Gerusalemme il 14 luglio 2023, in un periodo diverso anni luce da quello che stiamo vivendo oggi – ha raccontato il giornalista -. Il mio obiettivo era raccontare questo Paese meraviglioso a 360 gradi senza paraocchi, raccontare un paese e un popolo di una resilienza leggendaria che ha costruito negli anni un Paese giovane, ma che ha già fatto storia, straordinario dal punto di vista delle innovazioni e conoscenze tecnologiche, della sua economia, la cultura, storia e archeologia. Volevo raccontare tutti gli aspetti di questa realtà, perché il meccanismo distorto dell’informazione privilegia solamente le notizie negative. E nei primi giorni fra luglio e settembre 2023 sono riuscito a parlare di tutto».
Poi però è arrivato il 7 ottobre, un evento tragico che nessuno si aspettava. «Israele è stato colto di sorpresa da una vera invasione militare preparata in anni con la regia dell’Iran – ha continuato Brunori -. Quel giorno Yahia Sinwar ha avuto l’ardire nel suo delirio mistico di attaccare per primo: si sa infatti che aveva cercato di convincere Hezbollah e l’Iran di attaccare Israele ma questi avevano preferito aspettare. Si sa inoltre che due anni prima del 7 ottobre Hamas aveva organizzato un convegno a Gaza in cui era stato già stabilito di occupare Israele e dividerla in cantoni, individuando già le persone responsabili delle varie regioni. Ma anche esponenti di Fatah consideravano queste proposte deliranti. Sono poi state viste le esercitazioni di Hamas e fatte segnalazioni all’intelligence, ma non sono state prese in considerazione, perché si pensava che una vera minaccia sarebbe stata dal nord. Hezbollah aveva infatti pubblicato dei video già pronti e mandati in onda negli anni passati in cui si vedevano le varie fasi di un attacco dal nord verso Israele, con esattamente lo stesso modello che si è verificato il 7 ottobre: prima granate e missili ai villaggi, poi invasione di terra a piedi con moto, con l’obiettivo di colpire i civili e fare più danni possibile».
A un anno da quel “sabato nero”, la situazione è cambiata. «Sinwar è morto mentre probabilmente si preparava per scappare in Egitto e Hamas è oggi molto indebolita ma non distrutta – spiega Brunori -. Un ex capo delle operazioni dello Shin Bet mi diceva che la guerra dopo l’uccisione di Sinwar è cambiata perché prima Hamas era un esercito terroristico, ora invece è un insieme di tanti piccoli gruppi di miliziani che non hanno un comando centrale».
Le responsabilità dei giornalisti
Un tema centrale affrontato da Brunori nel suo intervento è il delicato ruolo di chi fa informazione. «Un giornalista deve basarsi su più fonti che devono essere incrociate, ma come è successo quando è stato colpito l’ospedale indonesiano a Gaza, Hamas dopo pochi minuti aveva già diramato un comunicato stampa dettagliatissimo sul numero e tipologia (donne, bambini, ecc..) dei morti, quando ancora non si sapeva cosa fosse successo. Eppure, tutta quella parte di informazione suscettibile alla propaganda di Hamas si è lasciata volentieri catturare dalla narrazione che era stato Israele a bombardare un ospedale facendo più di 500 morti, versione poi smentita da video in cui era chiaro che il missile era stato lanciato da Gaza”.
Già allora la prima solidarietà nei confronti di Israele, scatenata dai massacri del 7 ottobre, era andata scemando dopo l’inizio della risposta israeliana. E questo atteggiamento di molti media si è protratto per tutto l’anno fino a oggi.
“C’è un problema di fonti, perché molte di quelle che sono sul campo sono legate a Hamas – continua -. Bisogna quindi trattare queste notizie con grande cautela perché portano fuori strada. Soprattutto, è necessario cercare di fare un’informazione onesta, senza censure, perché non bisogna avere paura della verità, anche se scomoda”.
Rispondendo poi a una domanda del pubblico sul perché alcuni media si concentrano solo su alcuni aspetti del conflitto (ad esempio dando solo spazio alle frange più estremiste fra gli israeliani), Brunori ha affermato: «Si deve raccontare la realtà a 360 gradi, raccontando anche cose che non sono in linea con il proprio pensiero, questo è buon giornalismo. Molti hanno una vera ossessione per Netanyahu, ma non si può spiegare la complessità del Medio oriente solo con gli errori di Netanyahu e pensare che quando non sarà più lui al potere ci sarà la pace. Purtroppo molti agiscono in questo modo perché sanno di avere l’applauso del pubblico se cavalcano queste posizioni, e non capiscono, anche per mancanza di conoscenza, la complessità della realtà. Viviamo in un’epoca in cui c’è un’onda di ignoranza diffusa, evidente anche in quello che accade nei campus universitari, dove i giovani, senza conoscere la storia, hanno bisogno di trovare un nemico, e l’ebreo e l’israeliano sono il nemico perfetto. Ma c’è anche un altro aspetto da non sottovalutare: dopo molti anni dalla Shoah non c’è più il rispetto che si deve alle vittime dello sterminio nazista, che esisteva un tempo. Influisce anche la diffusione di internet e dei social media, dove chiunque può mettere in discussione l’opinione di un altro, magari di un grande luminare, solo perché non ne condivide le posizioni. Non si riconosce più l’autorità, vale la regola del ‘siccome lo penso vuole dire che è vero’. Ciò si traduce nel fatto che non ci sono più freni inibitori nei confronti di quello che si dice sugli ebrei. Se però, come sta succedendo, Israele recupera la deterrenza nei confronti dei suoi nemici, questo si rifletterà in parte anche sull’approccio complessivo dell’opinione pubblica. Perché la gente è molto attenta a chi vince».
Uno sguardo a domani
Inevitabile, infine, pensare al futuro e a come e quando finirà questa guerra. «Israele dopo questo orribile periodo di guerra è riuscita a rompere l’assedio delle forze nemiche, recuperando in parte quella deterrenza che aveva perso con il 7 ottobre – ha continuato -. Prima l’operazione dei cercapersone e dei walkie talkie, una cosa mai vista nella storia. Poi l’uccisione di Nasrallah, eliminato appena si è saputo che stava per tornare a Beirut, e infine Sinwar, il cui dna era stato trovato dallo Shin Bet dove erano stati uccisi i 6 poveri ostaggi israeliani. I successi militari israeliani hanno cambiato qualcosa; ora si tratta di vedere come evolverà la situazione nel futuro. Ci sono ancora ostaggi 101 ostaggi, forse la metà ancora vivi ma non sappiamo in che condizioni. C’è una corrente di pensiero secondo cui l’uccisione di Sinwar ha creato una situazione più favorevole per le trattative, in quanto, essendo lui votato al martirio, quando era in vita era il principale ostacolo al rilascio degli ostaggi, gli ostaggi che erano la sua assicurazione sulla vita e sulla presenza di Hamas a Gaza. Di certo la guerra non finirà oggi o domani ma c’è effettivamente una speranza che ci possa essere una evoluzione sugli ostaggi nella speranza che si muova anche in questa direzione buona parte del mondo arabo che non ha rotto con Israele, nonostante la guerra, come i Paesi che hanno aderito agli Accordi di Abramo, e che vedono come fumo negli occhi l’espansionismo iraniano. La speranza è che un domani quando la situazione avrà evoluzione positiva, Israele possa riprendere la normalizzazione con l’Arabia Saudita, accordi che erano quasi pronti e che sono stati fatti saltare il 7 ottobre per scelta dell’Iran».